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DISCUTENDO DI CHIANCIANO (seconda parte)- 16/10/2008

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Messaggio  Admin Mer 25 Feb 2009, 13:45

Renato Covino, 14 settembre 2008.

Caro Maurizio,

ho letto più di una volta il documento che mi hai inviato. Ne riassumo per mia comodità il senso o meglio quello che ne ho capito..

La sinistra ha perso non perché ridotta ad un simulacro di sé stessa, perché non è capace di analizzare in termini adeguati il cambiamento, ma perché complessivamente è fuori dalla storia e dalle cose e percorre ancora la strada fissata dal binomio sviluppo/emancipazione così come finora lo abbiamo conosciuto. La soluzione sta nei processi di decrescita e di esperienze ( non di un partito) che pongano al centro del dibattito politico questo tema. I terreni di resistenza sono l’opposizione ai meccanismi di devastazione del territorio, il rigetto del progetto USA di dominio globale del paese, la contestazione dell’ossessiva ricerca del profitto che fa coincidere economie legale ed economia illegale. Assi fondamentali sarebbero la difesa del territorio e dello Stato di diritto e la contestazione della casta vista come un soggetto che blocca ogni progetto di cambiamento reale, insomma “nel capitalismo contemporanea non c’è più nessuno spazio per la politica intesa come sfera in cui si confrontano idee diverse sulla direzione da imprimere allo sviluppo sociale. Lo sviluppo sociale è comandato, in ogni ambito, dall’economia e dalle sue esigenze di profitto”. Insomma l’economia sussume la politica e ne fa la sua ancella. Sembra quasi che si torni ai governi come comitati d’affari della borghesia, cosa probabilmente in ultima analisi vera, ma dopo un arco di mediazioni che non possono essere impunemente saltate, pena una semplificazione che impedisce di leggere lo stato attuale delle contraddizioni e lasciare spazio solo alla protesta disarticolata e perdente delle “moltitudini”.

Semplifico, naturalmente, ma credo che nella sostanza sia questo il senso del documento, dove – peraltro – trovo alcuni salti logici che rendono difficilmente comprensibili alcuni passaggi, con il rischio di mischiare brodo ed acidi, producendo una bevanda difficilmente ingurgitabile.

Intanto i concetti. Decrescita è il contrario di crescita non di sviluppo. So perfettamente che in un sistema capitalistico sviluppo e crescita tendono a coincidere e che il modello di sviluppo – oggi ridiventato dominate – è quello dell’accumulazione per l’accumulazione, ma a me pare che si prendano troppo sul serio quelle che sono le vulgate economiche degli apologeti del liberismo e della globalizzazione, non ragionando su dati di fatto che pure dovrebbero essere considerati.

Il primo è che alla faccia della globalizzazione lo scambio internazionale è bloccato ai livelli del 1914 ed avviene soprattutto per settori e merci mature e/o tra aree contigue. Non è un fatto da poco e non mi sembra che favorisca il livello di progetto di dominio mondiale degli Usa. Insomma il liberismo come cultura è ormai in crisi da quasi un decennio e il merito di Tremonti è di averlo detto, proponendo politiche protezioniste. Che questo serva a diminuire il dominio del capitale mi pare escluso e, tuttavia, introduce una discontinuità che meriterebbe di essere analizzata. D’altro canto dopo anni di privatizzazioni, si torna a nazionalizzare, certo a vantaggio del capitale e come ricetta anticrisi, come nel caso dei gruppi finanziari statunitensi legati ai mutui immobiliari, ma è comunque un fallimento culturale per chi riteneva che il ruolo dello Stato nei sistemi capitalistici fosse ormai da mettere in soffitta. E’ un’ulteriore contraddizione su cui varrebbe la pena di soffermarsi invece di assumere come dato di fatto una realtà ideologica che comincia a far acqua da tutte le parti.

Il secondo dato che andrebbe considerato è il livello di contraddizione tra le diverse politiche statuali. A me pare che quello che maturi con forza, sulla base di conderazioni geopolitiche e di scontro sulle risorse, sia una sorta di tendenza alla guerra senza più veli ideologici, come al tempo della contrapposizione Urss e Usa. Ciò contribuisce a mettere in crisi il sogno imperiale degli Usa e apre qualche spazio a processi di autonomizzazione di singoli paesi. Da questo punto di vista mi sembra che lo scontro tra potenze e stati assuma una rilevanza inaspettata e aggiunge un elemento non secondario a quella che Negri definisce la contrapposizione tra impero e moltitudine.

Il terzo dato è segna la difficoltà del momento è che i paesi del terzo modo hanno accettato il modello di sviluppo dell’Occidente, con tutti i rischi che questo comporta. Ciò implica due questioni che meriterebbe discutere: in prima battuta che senza un cambiamento globale di modello di sviluppo il rischio della catastrofe e/o della barbarie appare difficilmente evitabile, il secondo è che tuttavia occorre uno sviluppo che oggi si ama definire compatibile che però è necessario se si vuole rispondere alle esigenze di vita migliore da parte dei popoli che cercano di uscire da sistemi economici di sussitenza. E’ difficile spiegare ai cinesi che noi sì consumeremo meno acqua calda ma che loro non ne hanno diritto, oppure che noi abbiamo diritto, seppure in misura minore, a riscaldare le nostre case e loro no. Insomma occorre un modello di sviluppo diverso se ciò coincide, ma non mi pare, con il modello della decrescita allora nulla questio altrimenti varrà la pena di discuterne. In seconda battuta mi sembra che si proponga come soluzione la proposta di Latouche di non assumere più il Pil come indicatore di sviluppo. Da parte mia non ci si sono problemi. Tuttavia quale indicatore dovremmo assumere per misurare lo sviluppo di un sistema? E ancora: d’accordo che il profitto non sia misura di efficienza ma allora quali sono gli indicatori che consentono di monitorare un sistema economico e garantirne il funzionamento? La questione è di tipo pratico – teorico ed è stata una delle cause del fallimento dei sistemi socialisti o se preferisci a capitalismo di Stato. A ben vedere se si esclude l’ossessione per l’industria pesante e per la riduzione del gap tecnologico con l’Occidente, il sistema era parco e in buona parte trainato dai consumi collettivi, ma tutto ciò non riusciva a risolvere i bisogni di valori d’uso o li risolveva con il massimo dell’inefficienza. E’ un problema, come si può risolvere? Il mercato è certamente un indicatore imperfetto, ma a parte la sua dimensione di luogo di realizzazione del profitto, resta la funzione di luogo dove si formano i prezzi, e quindi, di misurazione del rapporto domanda e offerta. Lo si può certamente abolire, dato che non è affatto un processo naturale, ma bisogna pure sostituirlo un altro modo di formazione e monitoraggio dei prezzi.

Ultimo problema. Proponete la difesa del Welfare e denunciate l’attacco ad esso. Ciò implica due cose. La prima è anch’essa di carattere teorico. I sistemi di tassazione occidentali vanno da circa il 35% del Pil degli Usa al 70% della Svezia. Al di là della retorica non si scende al disotto a meno di non pensare ad uno stato di crisi permanente delle economie occidentali. Ciò nonostante i livelli di garanzia non crescono, anzi sono posti sotto attacco. Ciò dipende da quello che Offe definiva la crisi fiscale dello Stato. Certo dipende anche dal trasferimento di parte del bilancio dello Stato alle imprese e tuttavia su questo tema varrà la pena di riflettere qualunque modello di sviluppo o di decrescita si scelga. In secondo luogo ciò pone la questione dello Stato e della sua gestione. Insomma nessun movimento operaio o di contestazione dello stato di cose presenti può saltare questo livello. Al limite può sostenere che non è in grado, in questa fase, di affrontarlo, ma tuttavia deve tenerlo presente se vuol fare politica. Va da sé che non basta la denuncia della casta e la difesa della costituzione. La casta e l’attacco alla costituzione sono il sintomo di una soluzione autoritaria strisciante di una lunga crisi politico istituzionale che va a chiudersi a destra e in senso autoritario. Certo Pdl e Pd sono complici, ma se non si riesce a porre un cuneo e spezzare il gioco, creando contraddizioni, la situazione è tale da far temere una precipitazione in un regime in cui si creerà per qualche decennio un bipartitismo in cui la destra avrà permanentemente il governo e al Pd spetterà il monopolio dell’opposizione. La sinistra certamente non c’è, probabilmente per suo demerito, ma farei osservare che buona parte delle ideologie che stanno nel vostro documento sono state, più male che bene, cavalcate dalla sinistra stessa e che probabilmente anche questo ne ha provocato il declino. L’aver affrontato tardi e male la questione dello Stato ne ha favorito la debacle di aprile, ma ricordiamo come prima la retorica dei movimenti, la filosofia della decrescita ridotta a slogan, l’apologia dell’opposizione per l’opposizione, il cavalcare tutto ciò che era contro senza riuscire a definire un progetto sono stati terreni di coltura di un’ideologia indistinta in cui tutte le vacche rischiavano di essere nere.

Ultima cosa. Io non sono contrario agli antropologi economici. A lungo ho letto e riflettuto sui lavori del principale tra loro Karl Polanyi, sicuramente la pretesa eurocentrica di un modello di crescita o di sviluppo rettilineo e universale è un punto di riferimento culturale importante, come la contestazione della innaturalità del mercato e la critica allo stesso sono punti di vista che offrono utili spunti di riflessione, come esatta è la riflessione sulla resistenza dell’uomo sociale naturale ossia sulla capacità di resistenza delle comunità tradizionali che modificano lo stesso esito di processi storici, economici e sociali. Quello che mi lascia perplesso è l’idea che senza un’ipotesi complessiva in cui trovino posto anche alcune di queste intuizioni, senza un’idea diversa di sviluppo, senza un progetto di mutamento complessivo delle strutture economiche sociali ciò possa avere successo. Insomma rimango ancora convinto che malgrado in questa fase la rivoluzione non sia attuale, rimanga l’unica soluzione alla barbarie avanzante e che non basti dire che un mondo è finito senza affrontare una riflessione sul passato. Abbiamo seppellito il socialismo di Stato senza alcuna riflessione, seppelliamo il Novecento senza rifletterci sopra dicendo che è morto e seppelliamo il movimento operaio sostenendo che non ha più storia con una ignoranza che ritengo colpevole (il movimento operaio è cosa molta più complessa di quello che si descrive, è più dei partiti e delle organizzazioni collaterali), così non c’è più sentore della grande cultura economica e sociologica novecentesca almeno quella che si sviluppa prima della guerra. Insomma ritenere che Latouche sia l’ultima frontiera del pensiero alternativo, mi pare una bestialità. Mi pare che i contributi di cui tenere conto siano molti di più e se proprio devo scegliere tra l’antropologo francese e Marx continuo a preferire un pensiero complesso come quello del fondatore del socialismo scientifico, rispetto al quale mi pare si stia producendo una pericolosa regressione verso il socialismo piccolo borghese o utopico, che non è tutto sbagliato o negativo, ma che ha il difetto di vedere sono alcuni spaccati della realtà sociale, non riuscendo ad individuarne i movimenti complessivi. Ed è questo che mi sembra di leggere nel documento che mi hai cortesemente inviato, su cui non sono né d’accordo né in disaccordo, ma che mi lascia perplesso per le sue semplificazioni e parzialità.

Ciao e un caro saluto

Renato

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