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Postfazione a Zero di Giulietto Chiesa (II parte)

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Messaggio  Nicoletta Dom 05 Apr 2009, 10:42

È accaduto così che, trovandosi improvvisamente esposti a una pressione dal basso, essi abbiano cominciato a reagire scompostamente, convulsamente, irosamente. Hanno perduto il controllo, hanno inveito, mostrando paura e sconcerto. Soprattutto, non hanno potuto nascondere la loro incompetenza, la loro incapacità a verificare le loro fonti, mentre appariva sempre più evidente che le loro fonti erano tutte inquinate. Ma così sono già arrivato alle conclusioni, mentre la cosa più interessante mi pare lo svolgersi dell’esperimento. Nei 6 anni trascorsi, praticamente da quando avevo scritto il mio 1° libro sull’argomento, La Guerra Infinita (Feltrinelli, 2002), non avevo cessato di seguire con una certa e continua attenzione gli sviluppi politici, militari, mediatici, di quella premessa. Anno dopo anno, è apparso sempre più chiaro che l’11/9 era diventato un tabù appena pochi istanti dopo essersi tragicamente concluso, appunto “sotto gli occhi” sbarrati del pianeta. Il silenzio dominava sovrano l’intero mainstream. In Italia le decine di migliaia di copie del mio libro furono vendute senza la minima pubblicità, senza una sola recensione. Segno evidente che esisteva una domanda sotterranea, internettistica, che il mainstream ignorava totalmente. Sul web si moltiplicavano le inchieste, le indagini, i film sull’11/9, milioni di pagine web erano prodotte e scandagliate da milioni di lettori, in ogni paese del mondo. Specialmente negli USA. Ma proprio negli USA il silenzio dei media che possiamo definire ufficiali era il più assoluto. E all’incirca la stessa cosa avveniva nel resto del mondo. Il grande pubblico continuava a ignorare letteralmente tutto. Non qualcosa: tutto. La versione ufficiale, condensata (in italiano) in sole 5, striminzite parole era il Verbo: “È stato Osama bin Laden”. Nessuna domanda, nessuna indagine. 2 anni dopo l’11/9, una commissione ufficiale del Congresso USA aveva prodotto un rapporto, The 9/11 Commission Report, che aveva rappresentato la definitiva pietra tombale, l’archiviazione del caso. 19 dirottatori, guidati da Osama bin Laden, armati di temperini, avevano fatto tutto da soli. E nessuno si era messo a ridere. Decisi allora di fare un esperimento preliminare. Le premesse furono 2 e semplici: 1) l’11/9 è stato raccontato con le immagini. Demolirlo, si può solo con le immagini; 2) non si può combattere la versione ufficiale (palesemente falsa fin dal primo sguardo per chiunque, giornalista o meno, fosse intenzionato a guardarla con attenzione) standosene chiusi (l’espressione è intenzionale, e tornerò più avanti su questo concetto) nella Rete e sulla Rete. Bisognava tentare di uscirne, cioè provocare una serie di situazioni in cui il mainstream fosse costretto a vederci e “moltiplicarci”. Ma prima di tutto bisognava verificare un sospetto che mi si era venuto formando dopo aver tentato invano di aprire un discorso sull’11/9 con numerosi colleghi giornalisti di cui avevo e ho grande stima, e con numerosi esponenti della politica, della cultura, di cui avevo eguale stima. Ricordo, ad esempio, uno di questi esperimenti: una cena in cui eravamo ospiti e commensali, tra gli altri, io ed Enzo Siciliano. Al solo accennare all’ipotesi che l’11/9 non fosse esattamente quello che ci avevano raccontato, incontrai la sua reazione indignata. Non solo discorde, o critica: esattamente indignata. Non mi rivolse più la parola per tutta la serata, né ci incontrammo mai più in seguito. Non fu l’unico esempio. A una presentazione di un interessante libro di Loretta Napoleoni sui finanziatori del terrorismo, il giornalista Mario Pirani - conferenziere come me assieme all’autrice - non appena l’argomento venne timidamente affacciato tanto da me quanto dall’autrice (tutt’altro che sostenitrice delle mie tesi, ma appena appena scettica) prese, come si suol dire, cappello e cappotto, e se ne andò sdegnato lasciando il folto pubblico nella più grande costernazione. Reazioni, l’una e l’altra, tipiche del bigottismo che non sopporta lo “scandalo”. Me ne feci ben presto una ragione. Ma restava il dubbio sull’estensione dell’area del bigottismo, sulle sue caratteristiche. Perché ciò che mi incuriosiva non era tanto il fatto che molti potessero ritenere l’argomento sbagliato, o inutile, o temerario - cosa del tutto normale in qualunque dibattito di idee - quanto che lo ritenessero scandaloso, appunto, qualcosa di simile a una bestemmia, peggio, a un insulto diretto nei loro confronti, a qualcosa di paragonabile a un atto di aggressione ideologica. E infatti, la prima cosa che faceva seguito alla sorpresa e indignazione preliminare di questi interlocutori era l’accusa - quasi un riflesso automatico - di “antiamericanismo”, e subito dopo (una curiosità che non sono ancora riuscito a decifrare neppure dopo 6 anni di dibattiti) di “antisemitismo”. Così, assieme al gruppo dei miei più vicini compagni di lavoro (il nucleo di Megachip che sarebbe poi diventato una delle parti fondanti del “Gruppo Zero”), decidemmo di preparare un materiale visivo, a scopi didattico-sperimentali, da sottoporre a gruppi differenziati di persone diverse per professione, livello culturale, interessi, collocazione politica. Il tutto, per farci un’idea più precisa di come stessero le cose in realtà. Selezionammo sul web i materiali più sostanziosi e quelli che ci parvero i meno opinabili, e costruimmo un documentario di circa 40’ intitolato Sette domande sull’11 settembre. Per evitare che reazioni scandalizzate (alla Pirani, per intenderci) potessero creare situazioni spiacevoli tra gl’invitati, decidemmo di fare inviti differenziati per piccoli gruppi di una ventina di persone per volta, abbastanza omogenei. Facemmo una decina d’incontri romani, e una ventina di proiezioni in giro per l’Italia, queste ultime rivolte a pubblici indifferenziati. Una di queste proiezioni si svolse addirittura nel salone del Grand’Hotel a Roma, per i membri di una delle sezioni del Rotary Club, dove, sbalorditivamente, fui invitato come oratore a parlare proprio dell’11/9. La voce si era sparsa, e in una trasmissione tv - mi pare fosse una puntata di Omnibus, su La 7 - pur consapevole del rischio di trovarmi assalito da ogni parte, avevo gettato sul tappeto il tema. Il rischio si rivelò una certezza, ma molti spettatori, evidentemente, avevano, in qualche angolo del loro cervello, gli stessi interrogativi che io stesso avevo avuto all’inizio della storia. E, a differenza di me, non avevano potuto o saputo soddisfarli. Verificai, più avanti, che questo era lo stato delle cose per centinaia, migliaia, decine di migliaia di persone. Non potrei più tenere il conto della quantità di persone, giovani e vecchi, che dopo avermi sentito esporre le mie analisi sull’11/9 dicevano, e dicono: “Anch’io l’avevo pensato fin dall’inizio”. Ma, per tutti, aveva poi funzionato perfettamente l’archiviazione mediatica velocemente intervenuta a chiudere ogni varco. La paura aveva fatto il suo effetto, sfondando le porte dell’inconscio collettivo, e subito dopo le porte erano state chiuse, per evitare che il sopraggiungere della coscienza giungesse a turbare il risultato. In sostanza, tirando le somme, il risultato di quella piccola indagine statistica sui generis fu in un certo senso una conferma dell’idea iniziale, ma una conferma piena di risvolti praticamente rilevanti. Il dato generale, davvero stupefacente, era, in tutti gl’incontri, ma specialmente in quelli il cui pubblico era costituito in parte da giornalisti e da persone di elevato grado d’istruzione, che nessuno all’inizio della serata sapeva nulla di ciò che quella sera gli sarebbe stato mostrato. Nessuno - nemmeno persone abitualmente frequentatrici del web - era andato sui siti dove quelle questioni venivano mostrate e analizzate. Molti ne avevano sentito parlare, qualcuno c’era capitato per caso e aveva dato un’occhiata. Ma senza soffermarvisi: non c’è tempo per queste cose. Tutti, salvo rarissime eccezioni (specie nei pubblici indifferenziati, riuniti per discussioni politiche generali), ritenevano scontata la versione ufficiale. E si noti che si trattava in generale di pubblici “di sinistra”. Quasi tutti, dunque, avevano, per così dire, introiettato la spiegazione che era stata loro fornita. E ciò valeva anche per gli specialisti dell’informazione-comunicazione, per gl’intellettuali, per i professori universitari. Il pubblico colto e progressista reagiva nello stesso modo del pubblico generico e di sinistra, e perfino del pubblico di destra. Il tutto confermava l’ipotesi di partenza: che l’operazione 11/9 era stata il più fantastico successo manipolatorio di tutti i tempi. Chiunque fosse stato il suo ideatore, di lui poteva dirsi con certezza che era un raffinato conoscitore del funzionamento della macchina mediatica, della GFSM. Non solo: si poteva dire che, avendo ideato l’operazione terroristica, aveva tenuto conto anche delle reazioni della macchina mediatica, anticipandole, calcolandole. Ne veniva fuori l’identikit di persone assai diverse da un gruppo di fanatici ripetitori a memoria dei versetti del Corano. Come minimo, dietro ai fanatici doveva nascondersi una serie di individui dotati di una modernissima consapevolezza della psicologia delle grandi masse, e delle novità radicali prodotte dall’information-communication technology. Lettori di Elias Canetti, piuttosto che di Maometto. E ne concludemmo 3 cose: per quanti sforzi si facciano per aumentare la quantità di analisi e di prove su internet, se si resta chiusi dentro internet non si otterrà nessun movimento politico per ricostruire la verità e, con esso, per contribuire a fermare la guerra. Non è sufficiente che milioni di persone, in giro per il mondo, guardino su un computer lo stesso filmato rivelatore. Il risultato è una miriade di processi liberatori individuali, che non si traduce in azione politica e in consapevolezza collettiva. Ne consegue che bisogna agire per uscire dalla rete e coinvolgere il mainstream informativo. Che ovviamente vi si oppone, ma che può essere influenzato dalle tecniche spettacolari di cui è essenzialmente infarcito. Con quali tattiche e mezzi, è questione da sviluppare. E bisogna “raccontare” la verità (cioè che la versione ufficiale è un falso) con gli stessi modi con cui è stata fatta passare la bugia: con le immagini, e facendo scorrere le immagini nelle tv generaliste, dovunque possibile. Nacque in quel momento l’idea di farne un film, ma non (solo) destinato alla Rete (dove già ne circolavano più d’uno), bensì destinato a essere diffuso nelle sale cinematografiche, nei circoli culturali, nelle scuole, dovunque il pubblico s’incontra fisicamente con il messaggio e con gli altri uomini e donne in persona che lo compongono. E, ovviamente, nelle tv del mainstream, quelle che il grande pubblico, che non conosce la Rete, vede tutte le sere. La 3a scelta, fondamentale, fu di non cadere nell’errore in cui erano già caduti molti di coloro che, sul web, avevano ingaggiato la battaglia per la verità. E cioè di evitare di tentare una “dimostrazione” completa, definitiva e inequivocabile dell’andamento degli eventi reali. [continua]

Nicoletta
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