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Messaggio  aldo zanchetta Gio 07 Mag 2009, 01:02

UN CONTRIBUTO ALLA CONFUSIONE (SPERO PROVVISORIA) DELLE IDEE


Ponendo la globalizzazione nel contesto dello sviluppo del capitalismo, riuscii a comprendere quanta illusione si celasse dietro la convinzione nel progresso umano. Rashan Jah

Col titolo ho messo le mani avanti per giustificare la struttura di questa nota. Ho usato la tecnica del brainstorming accumulando caoticamente idee per procedere poi (spero) a un loro riordino, anche grazie ai vostri apporti e franche critiche. E mi scuso in anticipo se ripeto cose certo a voi note, ma facendolo tento di individuare il nostro ruolo politico in questo scorrere della crisi. Non ho le certezze e le competenze di molti e, zapatisticamente, “cammino interrogando(mi)”.

Le domande di Ennio

Parto dalle 4 domande di Ennio e dal suo successivo invio del testo di Roubini.

La risposta è no alla prima domanda : la forma che ha preso la crisi dipende dalle innovazioni finanziarie introdotte (banche tuttofare, assicurazioni come banche, nuovi strumenti fra cui spiccano gli hedge founs, deregolamentazione e conseguenze connesse; in questo l’indebitamento delle famiglie è solo uno degli aspetti) e dai potenti calcolatori capaci di vagliare e programmare problemi e ipotesi complesse in tempi brevi.

Ma pongo una domanda: senza questo non ci sarebbe stata comunque una crisi (essa era già in atto e questa è stata la via di procrastinarla continuando a fare utili), magari con caratteristiche differenti, ma sempre crisi?

La seconda domanda non mi è chiara e quindi preferisco non rispondere.

Alla terza potrei osservare che il predominio del dollaro dura dalla fine della seconda guerra mondiale e quindi assai prima di questa crisi. Quindi non è un motivo specifico di questa crisi.

Per la quarta risponderei in analogia alla terza.

Vorrei però che Ennio, che lodevolmente tenta di sintetizzare e facilitare il dibattito invitandovi con domande precise, esplicitasse il ragionamento che dovrebbe seguire alle risposte alle 4 domande, perché non mi è chiaro dove vorrebbe arrivare con queste risposte. A ricondurre la crisi a queste 4 cause? Lo troverei troppo semplificativo.

Indagare le cause ma interrogarci anche sui possibili sbocchi

Circa i dati di Roubini forniti da Ennio, questi sono utili per iniziare una riflessione anche sull’evolversi di questa crisi e non solo sulle cause e di introdurre, con tutte le cautele del caso, un tentativo di previsione del suo sbocco.
Personalmente ho trovato realista la posizione di Dahrendorf nell’articolo Il mondo che verrà ha radici antiche su Il Sole 24 Ore di domenica 26 aprile. Dopo aver notato che le spiegazioni della crisi variano in un campo esteso i cui estremi sono:
- tutto è successo perché il governo statunitense ha lasciato fallire la Lehman Brothers
- il crollo è sistemico
egli scrive:
“Ma quando le spiegazioni di un fenomeno diventano così varie, è bene mantenere la calma. Evidentemente non sappiamo ancora dove porti la crisi. Non sappiamo quanto durerà e abbiamo solo una vaga idea di come sarà il mondo quando sarà finita.”

Questo mi pare realistico e significativo, detto da un ex direttore della London School of Economics, la fucina dei neoliberisti. Ma non ci esenta dal cercar di capire il prima, il presente (frutto del prima) e il dopo (frutto del prima e del presente).

La crisi è sistemica o no?

Torno ancora una volta sull’affermazione che abbiamo fatto nel nostro Manifesto: siamo di fronte a una crisi sistemica.

Se la crisi è sistemica, il ragionamento deve andare al di là delle 4 domande di Ennio, che possono servire a capire la congiuntura di una crisi fra le tante che si sono susseguite negli ultimi decenni, ma non una crisi che può essere anche terminale.

Negli ultimi 60 anni abbiamo avuto una decina di crisi, di gravità diversa. Nessuno aveva mai parlato di crisi sistemiche. Questa volta molti ne parlano. Alcuni rispolverano con senso di rivincita il pensiero di Marx, ma senza interrogarsi a fondo sugli errori che Marx (e soprattutto i suoi epigoni) aveva commesso (il che non diminuisce i suoi molteplici meriti. Ma centocinquanta anni di storia non passano invano. Mi pare di ricordare che fra i due Chianciano vi avevo inviato il testo “Kanankil”, assai simpatico, del marxista messicano Pablo Casanova, che ipotizza un incontro fra Marx e Engels, nella Selva Lacandona ove è in atto la ribellione zapatista, incontro in cui i due si interrogano su cosa avrebbero riscritto e cosa no, 150 anni dopo Il Manifesto)

Ripropongo anche il quesito che avevo già posto. Da quando vogliamo far partire il nostro esame? Mi pare che Ennio spinga per concentrare la nostra attenzione sull’ultimo chilometro mentre altri (Leonardo, Moreno e Giulio) propendano per cercare di fare una lettura su tempi più lunghi. Questo era il mio interrogativo rimasto senza risposta chiara (supposto che debba averla). Senza una lettura storica non possiamo capire a fondo la crisi che stiamo attraversando e rispondere con più correttezza al fatto se è sistemica o no.

L’intrecci ricordato da Leonardo

Leonardo fra le cause della crisi rilevava giustamente 3 fenomeni sociali e politici fra loro intrecciati:
“La crescita della disuguaglianza ha riguardato soprattutto gli Usa, ma non soltanto gli Usa: si è trattato piuttosto di un fenomeno globale e gigantesco, illustrato in decine di studi, che ha preso l’avvio dagli anni ’80. Alcuni attribuiscono l’innesco del fenomeno al cosiddetto monetarismo. A me pare che sia riconducibile all’intreccio di 3 fenomeni sociali e politici: a) l’eclissi del vecchio movimento operaio europeo, b) l’esaurirsi della spinta del movimento anticoloniale (e dei “non allineati”), c) la crisi disastrosa del blocco sovietico. Lo scatenarsi degli “spiriti animali”, consentito da questo intreccio, ha portato alla possibilità/necessità di drogare il sistema con le conseguenze che oggi possiamo apprezzare appieno.”

Ma occorre andare oltre e chiedersi le cause che hanno generato questi tre fallimenti finali di gloriosi processi. Per non ripeterli, quanto meno.

Le cause di questo fallimento a loro volta hanno radici lontane su cui è necessario indagare, perché se da un lato molti capitalisti pensano che questa crisi si possa sanare cambiando alcune regole, ma non i paradigmi, anche molti marxisti o marxisteggianti pensano una cosa analoga, ovviamente per ciò che è avvenuto in casa loro. E questa illusione potrebbe albergare anche fra noi.

Oggi non mancano oggi le analisi che sottolineano le radici comuni alle due filosofie, insite nella loro radice culturale, da Wallerstein a Illich (e se fossi meno ignorante potrei citarne molti altri). L’essere entrambe figlie del razionalismo positivista, della credenza in una serie di automatismi di causa-effetto, di concepire la storia come un cammino inevitabilmente di “progresso”. E ad es. avere lasciato fuori dalle proprie analisi la finitezza delle risorse naturali e la necessità di tempi di consumo più lunghi per quelle rinnovabili, dando così il tempo di rinnovarsi. Cioè avere avuto in comune una certa visione della natura come organismo dotato di un suo equilibrio precario, non modificabile a piacere.

Il comunismo, o socialismo reale o quello che sia stato, basato su questi paradigmi, è fallito, e non valgono appelli generici a un socialismo del XXI secolo che non comporti una critica radicale a ciò che fu quello del XX. E sugli stessi paradigmi sembra stare esaurendo il proprio ciclo storico anche il capitalismo, giunto alla forma estrema neoliberista.

Se la crisi è sistemica è limitativo concentrarsi sulle cause del suo ultimo inciampo. Occorre ripensare i paradigmi (il testo di Badiale e Bontempelli che aprì il Chianciano 1 non deve essere messo nel cassetto ma semmai approfondito).

Il lungo processo capitalista volge al termine?

Il capitalismo è nato circa 700 anni or sono, nel XII secolo (tesi di Rashan Jha Il caos prossimo venturo, tesi di cui è debitore per sua ammissione verso Hobsbawm, Arrighi, Wallerstein e Braudel) e ha avuto un impulso decisivo dalle ricchezze rapinate in America oggi Latina 500 anni or sono, che hanno permesso un accumulo straordinario di capitale. E, come ogni sistema storico, ha avuto una nascita e avrà una sua fine.

(segue)

aldo zanchetta

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Messaggio  aldo zanchetta Gio 07 Mag 2009, 01:03

Quando? Come? E cosa dovremo ancora vedere e subire prima di allora?

I 4 autori citati, con alcune coincidenze e alcune divergenze fra loro, hanno descritto lo sviluppo del capitalismo nel tempo lungo, avvenuto attraverso ben individuabili successivi cicli storici determinati dalla necessità di superare le crisi sopraggiunte in ogni ciclo dopo una fase di crescita vigorosa e una di ristagno, e questo mediante un ampliamento del teatro geografico di operazione (“contenitore” lo chiama Jha) , ampliamento sia in termini di sbocchi di mercato che di reperimento di risorse. Ad ogni nuovo ciclo ha corrisposto un cambio di protagonisti egemoni, cambio accompagnato da distruzioni di strutture e di imprese, con un alto prezzo umano. Una buona ricostruzione sintetica di questo processo è contenuta nel bel libro ora citato di Jha (pagg 71-100)

Naturalmente il processo nel suo divenire storico (ciclo capitalista) ha avuto un filo conduttore unificante: l’accumulo del capitale. Infatti come ricorda Wallerstein (pag48) “Siamo in un sistema capitalistico solo quando il sistema accorda priorità all’incessante accumulazione di capitale”.

All’interno di queste fasi storiche un economista russo, Kondriatef, ha individuato delle ciclicità più brevi, variabili fra 50 e 60 anni, ciclicità la cui esistenza oggi mi sembra più o meno accettata dagli studiosi.

Per inciso sia Jha che Wallerstein , per non citare che questi, sottolineano la centralità della tecnologia nel corso di tutto il processo di accumulazione capitalista, tema che dovremmo condurre assieme al gruppo tecnoscienza per illuminare il vero volto della odierna “scienza” e il nodo oggi inscindibile scienza-tecnologia nel processo di accumulazione capitalista. E qui le biotecnologie giocano un ruolo fondamentale nel nuovo meccanismo di accumulazione: esaurendosi le risorse naturali tradizionali la nuova fase è quella dell’attacco alla vita e ai suoi meccanismi, e qui purtroppo la confusione è grande nel campo che si autodefinisce progressista, ancora indeciso se definire questo processo come progresso o discriminare al suo interno (vedi gli articoli laudativi della scienza-progresso sulle pagine “scientifiche” de La Repubblica, o il prossimo meeting di San Rossore della progressista regione Toscana: La scienza motore del progresso).

Oggi saremmo al termine di un ciclo di Kondriatef (Wallerstein pp 56-58) e quindi in una fase di crisi terminale di ciclo. Ma anche del quarto dei cicli “lunghi”. Jha, che fa sua la teoria dei 5 capitalismi (citta-stato italiane – città-stato dei Paesi Bassi – Inghilterra – Stati Uniti i rispettivi “contenitori”), vede la globalizzazione come quinto ciclo, appena iniziato, con il relativo caos del nuovo trapasso. Wallerstein va oltre e dice: siamo entrati nel ciclo terminale di vita del capitalismo.

Cosa differenzia questa crisi dalle precedenti, per essere sistemica? Secondo W. si, questa crisi è differente . Saremmo alla fase terminale del capitalismo, perché il suo ciclo storico si va esaurendo con l’esaurirsi delle condizioni culturali e materiali che lo hanno consentito. I suoi paradigmi fondanti non reggono più e il pianeta, esausto, non ha più risorse da offrire al ritmo attuale. Per W questa crisi terminale durerà ancora una cinquantina d’anni, 10 + o 10 -. In questo periodo avremo scosse telluriche di frequenza, intensità e drammaticità crescente.

Anche Ivan Illich aveva visto inevitabile la crisi mortale del sistema, forse a tempi più brevi di quanto forse stia accadendo. Egli supponeva che il sistema capitalista fosse abbastanza forte per affrontare le singole crisi e superarle; ma non più quando queste si fossero fatte più frequenti e soprattutto concomitanti. anche se ciascuna con diversa natura. Quello sarebbe stato il momento del crollo del sistema. Oggi appunto si ha una concomitanza di crisi e, anche se quella economica al momento ha oscurato le altre, queste permangono e si legano fra loro, da quella climatica a quella energetica a quella alimentare. Tutte sono frutto della medesima matrice capitalista.

Ma che di crisi sistemica e forse mortale si tratti è anche nel pensiero di alcuni “conservatori” (Massimo Fini, Guido Rossi….)

Ma una volta giunti al termine del ciclo capitalista, ad attenderci non ci sarà necessariamente il “sole dell’avvenire” (e qui Moreno da marxista critico giustamente rifiuta un meccanicismo che per troppo tempo ha obnubilato la mente dei marxisti fondamentalisti). Potremo trovarci in una situazione migliore come pure in una peggiore. Illich parlava di un possibile “fascismo tecno-burocratico” (però “non inscritto negli astri” aggiungeva.)

Qui, all’interno di un processo di caduta di paradigmi che molti ancora rifiutano, gioca il senso del nostro impegno. Che ruolo realistico possiamo giocare, al di fuori di romantici furori?

Il passaggio dal primato dell’economia reale a quello dell’economia finanziaria

In realtà la crisi mi pare covasse già almeno dalla metà degli anni 70, e la radice profonda risiedesse nella incompatibilità fra “sviluppo” e “ambiente”, come aveva mostrato il rapporto Bruntland commissionato dall’ Onu (i prossimi lettori del libro di Rist troveranno sviluppata questa mia affermazione). E a seguito di questo rapporto che infatti si iniziò ad aggettivare la parola sviluppo per cercare di conciliarla con i suoi effetti indesiderati (sostenibile,durevole,umano,integrale etc).

Allora i paesi “centrali” escogitarono varie soluzioni per procrastinarla, dalla creazione del debito (“grande idrovora” per trasferire denaro dai paesi periferici a quelli centrali e tuttora perfettamente funzionante, come scrisse Darcy Ribeiro), alla liberalizzazione (monodirezionale) del commercio internazionale, con le vertenze ancora aperte sui “temi di Singapore” e infine all’esplosione degli strumenti finanziari.

Ma nella spinta decisiva alla finanziarizzazione dell’economia (fenomeno però non nuovo nella storia del capitalismo, vedi la famosa “crisi dei tulipani” in Olanda all’inizio del 1600) ha giocato l’innalzamento graduale negli ultimi 50 anni di alcune componenti dei costi di produzione :
- retribuzione dei salariati
- costi dello smaltimento rifiuti
- tassazione
e la graduale rarefazione delle risorse naturali e quindi la crescita dei loro costi.

Tutto ciò ha portato a una compressione dei profitti non avendo potuto essere compensato dalla corrispondente crescita dei prezzi di vendita a causa di una situazione di sovrapproduzione di merci. E poiché la logica del capitalismo è l’incessante accumulazione di capitale, in misura non inferiore alle aspettative, lo spostarsi sul settore speculativo finanziario era una prospettiva allettante. Certo il ruolo predominante del dollaro, la sofisticazione degli investimenti finanziari resa possibile da calcolatori sempre più potenti capaci di elaborare in tempi ridotti complessi calcoli matematici, deregolamentazione dell’economia, sollecitata da potenti lobby (vedi le ammissioni di Stiglitz nel suo terzultimo libro di cui non ricordo il titolo), hanno creato le condizioni perché la crisi assumesse queste modalità. Ma essa sarebbe comunque scoppiata, in altro momento con altre modalità e intensità. Se non è chiaro questo non sono chiare le contraddizioni insite nel sistema, e si potrebbe accettare per buona la tesi che si è trattato di eccessi riconducibili a ragione con nuove regole, ciò che si sta tentando (e riuscendo) di fare.

Avrei voluto articolare meglio e in maniera più coerente questi elementi, che in una seria analisi di quanto sta accadendo non possono essere scissi fra loro, anche se probabilmente non sono neppure esaustivi. Spero di poter farlo meglio dopo le osservazioni critiche che spero di ricevere. Ho voluto perorare la causa di una riflessione sui tempi lunghi della storia se vogliamo capire un po’ meglio il presente e ipotizzare il futuro. Leggo molte analisi “ragionevoli”, ma tutte lasciano fuori o l’uno o l’altro argomento. E assai raramente viene affrontato a fondo, anche se spesso evocato, forse a scopo scaramantico, il tema dell’effettivo cambio dei paradigmi su cui poggia il sistema, senza il quale la crisi procederà, in tempi non brevissimi ma dolorosissimi, verso l’esito finale con un crescendo drammatico di guerre. Ma dal quale non possiamo esimerci, in coerenza con la nostra denuncia della crisi attuale come “crisi sistemica[/i]”
A.Z.

aldo zanchetta

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Messaggio  Ennio Ven 08 Mag 2009, 16:48

Raccolgo i (numerosi) stimoli di Aldo, e invito anche altri a farlo. Molti punti sono stati toccati e rispondere su tutto non sarebbe proficuo. Mi concentrerò su quello che credo essere il punto centrale.

La crisi è sistemica? Noi abbiamo affermato di sì. Con l'analisi che ho abbozzato in questo forum ho cercato di sostanziare in che senso e perchè questa crisi si possa definire sistemica. Mi rendo conto però che forse abbiamo sottovalutato tutti un aspetto della discussione che credo a questo punto vada affrontato in via preliminare: che significa dire che una crisi è sistemica?

Cerco di rispondere brevemente in modo tale da rendere il post maggiormente fruibile.

Una crisi economica è la situazione in cui il PIL decresce e la disoccupazione cresce. Intuitivamente, è la situazione in cui la capacità produttiva di un'economia non è sfruttata a dovere e numerose persone non sono occupate come vorrebbero.

A mio modo di vedere una crisi sistemica può innescare una crisi economica ma non concide con questa nè si esaurisce in questa. Per crisi sistemica io intendo la situazione in cui un certo sistema produttivo, caratterizzato da un certo equilibrio di forze, diventa insostenibile con la conseguenza che deve necessariamente essere sostituito da un altro. Per fare un'analogia in scienza politica, è come quando i blocchi di allenze consolidate si disfanno e parte una stagione di ricomposizione delle alleanze.

La presente crisi sarebbe quindi sistemica perchè l'equilibrio di forze che sorreggeva il modello di sviluppo non esiste più. Ciò, tuttavia, è ben lungi dal costituire la fine del capitalismo o l'inevitabile conclusione di questa fase del capitalismo. La crisi che viviamo non era inevitabile nè la finanza mondiale doveva necessariamente svilupparsi come ha fatto. Inoltre, ci tengo a sottolineare che è del tutto plausibile che da questa crisi esca un nuovo equilibrio di forze più stabile del precedente (e magari il capitalismo ne esca addirittura rafforzato). Al momento non credo sia possa stabilire alcunchè di preciso (e forse vale la pena parlare del futuro solo dopo essersi chiariti su ciò che è accaduto fino ad ora).

Ennio

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Messaggio  Simone Sab 09 Mag 2009, 14:11

Ciao Aldo. Ho letto anch'io il saggio che hai citato, ossia "Il caos prossimo venturo". Mi sembra utile rilevare che Jha (Prem Shankar e non Rashan, che mi risulti) insiste sul concetto di delocalizzazione (industrial) per spiegare la natura dell'attuale capitalismo. Esso, sostiene, Jha, agisce sempre in opposizione agli interessi e alla linea politica dello stato sociale. Ci sono però periodi in cui esso viene contenuto da regole e norme dettate dalla logica dello stato sociale e altri, come il nostro, in cui ad esse si rinuncia per favorire l'espansione del mercato. I mercato capitalistico, dice Jha, è per sua natura nemico della società, perché il suo fine è quello di sfondare i propri contenitori, ed è proprio il contenitore - nazione la sua vittima attuale (il titolo originale è, traduco per concetti perché non ne ricordo la forma precisa, "Il tramonto dello stato - nazione"), sicché il problema di oggi dipende strettamente dalla storia evolutiva del capitalismo occidentale, se non ho frainteso. Da questo punto di vista, Jha propone di rispondere a questa tendenza con istanze diametralmente opposte, ossia con una nuova regolamentazione dell'economia internazionale. Non so se Jha, proprio per il tipo di analisi e di prospettiva che fornisce, sia l'interlocutore adatto per degli anticapitalisti, quali noi siamo o vogliamo definirci. Che ne pensi?

Simone

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