un articolo di G.F. Bologna
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un articolo di G.F. Bologna
Sottopongo all' attenzione dei viandanti questo articolo a mio avviso interessante.
Personalmente non trovo felice (per lo meno) la formulazione del "punto "7" che mi sembra presenti qualche elemento di ambiguità circa le possibilità (comunque limitate e da considerarsi col massimo di "prudente pessimismo"!) delle tecnologie nel "ridurre considerevolmente l’impatto umano nei confronti degli ecosistemi"; in ogni caso mi sembra che un mutamento radicale del modo di produrre e consumare sia giustamente considerato non meno importante in questo scritto.
Segnalo inoltre ai viandanti (é troppo lungo per copiarlo-incollarlo) un articolo a mio avviso molto illuminante sulla questione degli o. g. m.:
Piante trasgeniche, ecosistemi e geni della morte
di Manuela Giovannetti*
L' ho pure trovato in
www.ariannaeditrice.it (dove é facilmente reperibile nell' archivio articoli in data 27/3/09; però risale al 1999 -!-, allorché fu pubblicato sulla rivista "Il ponte").
Giulio Bonali
I negazionisti e la libertà di distruggere il pianeta
di Gianfranco Bologna - 27/03/2009
Fonte: greenreport [scheda fonte]
Ciò che ha avuto luogo recentemente a Milano con la presentazione del volume del presidente ceco Vaclav Klaus (“Pianeta blu, non verde”) ha costituito l’ennesimo triste episodio che mira a rivitalizzare l’industria professionale del negazionismo del nostro paese, proprio nell’anno cruciale dei negoziati per il clima e della presidenza italiana del G8. Fatto ancor più triste che tutta la presentazione sia avvenuta, di fatto, sotto lo slogan “Il clima sta bene: in pericolo è la libertà”. Ma quale libertà ? Forse quella di distruggere la natura non avendo costoro la benché minima cognizione delle scienze ecologiche.
Il mondo di coloro che si dedicano all’industria professionale del negazionismo è un mondo composito, basato su impostazioni ideologiche estreme (iper-liberisti, cattolici fondamentalisti, paladini della crescita economica a tutti i costi ecc.) che, paradossalmente, attaccano la scienza ambientale come ideologica e fondamentalista, quando sono loro i massimi rappresentanti di questi approcci.
Purtroppo queste persone non hanno neanche lontanamente idea (e forse non gli interessa averla) della straordinaria massa di conoscenze scientifiche sin qui acquisite da tutti i più grandi programmi di ricerca internazionali sui cambiamenti globali indotti dall’intervento umano sul Pianeta e sperano che, facendo un pò di chiasso mediatico attraverso articoli sui giornali o presenze radio-televisive con impostazioni assiomatiche ed assertive, si possa seminare il “germe” della confusione nell’opinione pubblica e degli ambienti politico-economici, inducendo tutti a procedere come se nulla fosse (il ben collaudato meccanismo del Business As Usual).
Ora la scienza, da tempo, ha pubblicato un’ingente massa di dati, molto chiari che documentano l’evidentissimo e drammatico impatto del nostro intervento sui sistemi naturali che, purtroppo si rivolge, nei suoi nefasti effetti, contro noi stessi.
Non posso in un solo articolo menzionare le conclusioni di tutte queste affascinanti ricerche internazionali che vedono coinvolti i più grandi esperti del mondo delle cosiddette Earth System Sciences (Scienze del Sistema Terra, dalla climatologia all’oceanografia, dalla geologia all’ecologia ecc.) e che cercando di analizzare le interrelazioni esistenti nelle grandi sfere presenti sul nostro Pianeta: la sfera dell’aria (atmosfera), la sfera del suolo (pedosfera), la sfera dell’acqua (idrosfera), la sfera della vita (biosfera), la sfera dei sistemi umani (antroposfera).
Provo a riassumere in una serie di punti quanto costituisce ormai base comune della ricerca scientifica su questi temi in tutto il mondo (e suggerisco vivamente, consapevole che non tutti possono seguire la letteratura scientifica specializzata, di visitare almeno i seguenti siti dei più autorevoli e prestigiosi programmi di ricerca internazionali su questi temi (Earth System Science Partnership www.essp.org, International Geosphere-Biosphere Programme www.igbp.net, World Climate Research Programme www.wcrp.wmo.int/, Millennium Ecosystem Assessment www.maweb.org ):
1. ogni individuo sulla Terra dipende dalla natura e dai servizi che gli ecosistemi forniscono per una vita dignitosa e sicura. L’attività umana pone però una tale pressione sulle funzioni naturali della Terra che la capacità degli ecosistemi del pianeta di sostenere le generazioni future non può più essere data per scontata.
2. la specie umana, negli ultimi decenni, ha modificato l’ecosistema in dimensioni che non hanno precedenti nella storia della nostra presenza sul Pianeta, allo scopo di soddisfare la crescente richiesta di alimenti, acqua potabile, fibre ed energia. L’approvvigionamento di cibo, acqua dolce, energia e materiali per una popolazione in continua crescita è stato sinora raggiunto ad un pesante costo per il complesso sistema di piante, animali e processi biologici che rendono il pianeta abitabile.
3.le attività umane stanno influenzando l’ambiente planetario in molti modi che vanno ben oltre l’immissione in atmosfera di gas a effetto serra e i conseguenti cambiamenti climatici che ne derivano. I cambiamenti indotti dalle attività antropiche nel suolo, negli oceani, nell’atmosfera, nel ciclo idrologico e nei cicli biogeochimici dei principali elementi, oltre ai cambiamenti della biodiversità, sono oggi chiaramente identificabili rispetto alla variabilità naturale. Le attività antropiche sono perciò a tutti gli effetti comparabili, per intensità e scala spaziale di azione, alle grandi forze della natura. Molti di questi processi stanno aumentando di importanza ed i cambiamenti globali sono già una realtà oggi.
4. con il crescere del fabbisogno umano nei decenni a venire i sistemi naturali dovranno affrontare pressioni anche maggiori, insieme al rischio di un ulteriore indebolimento delle infrastrutture naturali da cui tutte le società dipendono. La pressione a cui sottoponiamo gli ecosistemi, crescerà a livello mondiale nel corso dei decenni a venire a meno che non si modifichino i nostri modelli di produzione e consumo.
5.i cambiamenti globali non possono essere compresi nei termini della semplice relazione causa-effetto. I cambiamenti indotti dalle attività antropiche sono causa di molteplici effetti che si manifestano nel Sistema Terra in modo molto complesso. Questi effetti interagiscono fra di loro e con altri cambiamenti a scala locale e regionale con andamenti multidimensionali difficili da interpretare e ancor più da predire. Per questo gli eventi inattesi abbondano.
6. proteggere e migliorare il nostro benessere futuro richiede un utilizzo più saggio e meno distruttivo delle risorse naturali. Ciò comporta a sua volta cambiamenti radicali nel modo in cui prendiamo ed attuiamo le decisioni.
7. dobbiamo imparare a riconoscere il reale valore della natura, sia in termini economici sia per la ricchezza che offre alle nostre vite, in modi che sono molto più difficili da quantificare. Le tecnologie e le conoscenze odierne possono ridurre considerevolmente l’impatto umano nei confronti degli ecosistemi. È comunque improbabile che questi strumenti siano utilizzati pienamente sino a quando i servizi degli ecosistemi saranno percepiti come gratuiti e senza limitazioni e non sarà considerato il loro valore reale.
8. la protezione dei sistemi naturali non può più essere considerata come un accessorio extra, da affrontare solo dopo che interessi più pressanti, come la creazione della ricchezza economica o la sicurezza nazionale, siano stati risolti.
Il sistema climatico ed i sistemi naturali purtroppo non stanno affatto bene con buonapace dei negazionisti ed è pura follia andare avanti come se nulla fosse.
Chi propone questi approcci è responsabile delle politiche dell’inazione che hanno un costo elevatissimo per l’intera umanità.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
Personalmente non trovo felice (per lo meno) la formulazione del "punto "7" che mi sembra presenti qualche elemento di ambiguità circa le possibilità (comunque limitate e da considerarsi col massimo di "prudente pessimismo"!) delle tecnologie nel "ridurre considerevolmente l’impatto umano nei confronti degli ecosistemi"; in ogni caso mi sembra che un mutamento radicale del modo di produrre e consumare sia giustamente considerato non meno importante in questo scritto.
Segnalo inoltre ai viandanti (é troppo lungo per copiarlo-incollarlo) un articolo a mio avviso molto illuminante sulla questione degli o. g. m.:
Piante trasgeniche, ecosistemi e geni della morte
di Manuela Giovannetti*
L' ho pure trovato in
www.ariannaeditrice.it (dove é facilmente reperibile nell' archivio articoli in data 27/3/09; però risale al 1999 -!-, allorché fu pubblicato sulla rivista "Il ponte").
Giulio Bonali
I negazionisti e la libertà di distruggere il pianeta
di Gianfranco Bologna - 27/03/2009
Fonte: greenreport [scheda fonte]
Ciò che ha avuto luogo recentemente a Milano con la presentazione del volume del presidente ceco Vaclav Klaus (“Pianeta blu, non verde”) ha costituito l’ennesimo triste episodio che mira a rivitalizzare l’industria professionale del negazionismo del nostro paese, proprio nell’anno cruciale dei negoziati per il clima e della presidenza italiana del G8. Fatto ancor più triste che tutta la presentazione sia avvenuta, di fatto, sotto lo slogan “Il clima sta bene: in pericolo è la libertà”. Ma quale libertà ? Forse quella di distruggere la natura non avendo costoro la benché minima cognizione delle scienze ecologiche.
Il mondo di coloro che si dedicano all’industria professionale del negazionismo è un mondo composito, basato su impostazioni ideologiche estreme (iper-liberisti, cattolici fondamentalisti, paladini della crescita economica a tutti i costi ecc.) che, paradossalmente, attaccano la scienza ambientale come ideologica e fondamentalista, quando sono loro i massimi rappresentanti di questi approcci.
Purtroppo queste persone non hanno neanche lontanamente idea (e forse non gli interessa averla) della straordinaria massa di conoscenze scientifiche sin qui acquisite da tutti i più grandi programmi di ricerca internazionali sui cambiamenti globali indotti dall’intervento umano sul Pianeta e sperano che, facendo un pò di chiasso mediatico attraverso articoli sui giornali o presenze radio-televisive con impostazioni assiomatiche ed assertive, si possa seminare il “germe” della confusione nell’opinione pubblica e degli ambienti politico-economici, inducendo tutti a procedere come se nulla fosse (il ben collaudato meccanismo del Business As Usual).
Ora la scienza, da tempo, ha pubblicato un’ingente massa di dati, molto chiari che documentano l’evidentissimo e drammatico impatto del nostro intervento sui sistemi naturali che, purtroppo si rivolge, nei suoi nefasti effetti, contro noi stessi.
Non posso in un solo articolo menzionare le conclusioni di tutte queste affascinanti ricerche internazionali che vedono coinvolti i più grandi esperti del mondo delle cosiddette Earth System Sciences (Scienze del Sistema Terra, dalla climatologia all’oceanografia, dalla geologia all’ecologia ecc.) e che cercando di analizzare le interrelazioni esistenti nelle grandi sfere presenti sul nostro Pianeta: la sfera dell’aria (atmosfera), la sfera del suolo (pedosfera), la sfera dell’acqua (idrosfera), la sfera della vita (biosfera), la sfera dei sistemi umani (antroposfera).
Provo a riassumere in una serie di punti quanto costituisce ormai base comune della ricerca scientifica su questi temi in tutto il mondo (e suggerisco vivamente, consapevole che non tutti possono seguire la letteratura scientifica specializzata, di visitare almeno i seguenti siti dei più autorevoli e prestigiosi programmi di ricerca internazionali su questi temi (Earth System Science Partnership www.essp.org, International Geosphere-Biosphere Programme www.igbp.net, World Climate Research Programme www.wcrp.wmo.int/, Millennium Ecosystem Assessment www.maweb.org ):
1. ogni individuo sulla Terra dipende dalla natura e dai servizi che gli ecosistemi forniscono per una vita dignitosa e sicura. L’attività umana pone però una tale pressione sulle funzioni naturali della Terra che la capacità degli ecosistemi del pianeta di sostenere le generazioni future non può più essere data per scontata.
2. la specie umana, negli ultimi decenni, ha modificato l’ecosistema in dimensioni che non hanno precedenti nella storia della nostra presenza sul Pianeta, allo scopo di soddisfare la crescente richiesta di alimenti, acqua potabile, fibre ed energia. L’approvvigionamento di cibo, acqua dolce, energia e materiali per una popolazione in continua crescita è stato sinora raggiunto ad un pesante costo per il complesso sistema di piante, animali e processi biologici che rendono il pianeta abitabile.
3.le attività umane stanno influenzando l’ambiente planetario in molti modi che vanno ben oltre l’immissione in atmosfera di gas a effetto serra e i conseguenti cambiamenti climatici che ne derivano. I cambiamenti indotti dalle attività antropiche nel suolo, negli oceani, nell’atmosfera, nel ciclo idrologico e nei cicli biogeochimici dei principali elementi, oltre ai cambiamenti della biodiversità, sono oggi chiaramente identificabili rispetto alla variabilità naturale. Le attività antropiche sono perciò a tutti gli effetti comparabili, per intensità e scala spaziale di azione, alle grandi forze della natura. Molti di questi processi stanno aumentando di importanza ed i cambiamenti globali sono già una realtà oggi.
4. con il crescere del fabbisogno umano nei decenni a venire i sistemi naturali dovranno affrontare pressioni anche maggiori, insieme al rischio di un ulteriore indebolimento delle infrastrutture naturali da cui tutte le società dipendono. La pressione a cui sottoponiamo gli ecosistemi, crescerà a livello mondiale nel corso dei decenni a venire a meno che non si modifichino i nostri modelli di produzione e consumo.
5.i cambiamenti globali non possono essere compresi nei termini della semplice relazione causa-effetto. I cambiamenti indotti dalle attività antropiche sono causa di molteplici effetti che si manifestano nel Sistema Terra in modo molto complesso. Questi effetti interagiscono fra di loro e con altri cambiamenti a scala locale e regionale con andamenti multidimensionali difficili da interpretare e ancor più da predire. Per questo gli eventi inattesi abbondano.
6. proteggere e migliorare il nostro benessere futuro richiede un utilizzo più saggio e meno distruttivo delle risorse naturali. Ciò comporta a sua volta cambiamenti radicali nel modo in cui prendiamo ed attuiamo le decisioni.
7. dobbiamo imparare a riconoscere il reale valore della natura, sia in termini economici sia per la ricchezza che offre alle nostre vite, in modi che sono molto più difficili da quantificare. Le tecnologie e le conoscenze odierne possono ridurre considerevolmente l’impatto umano nei confronti degli ecosistemi. È comunque improbabile che questi strumenti siano utilizzati pienamente sino a quando i servizi degli ecosistemi saranno percepiti come gratuiti e senza limitazioni e non sarà considerato il loro valore reale.
8. la protezione dei sistemi naturali non può più essere considerata come un accessorio extra, da affrontare solo dopo che interessi più pressanti, come la creazione della ricchezza economica o la sicurezza nazionale, siano stati risolti.
Il sistema climatico ed i sistemi naturali purtroppo non stanno affatto bene con buonapace dei negazionisti ed è pura follia andare avanti come se nulla fosse.
Chi propone questi approcci è responsabile delle politiche dell’inazione che hanno un costo elevatissimo per l’intera umanità.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
Giulio Bonali- Messaggi : 25
Data di iscrizione : 08.03.09
Re: un articolo di G.F. Bologna
L'articolo di Gianfranco Bologna, che a una prima lettura può "suonare vicino" seppure con qualche forzatura quà e là - come osservato da Giulio -,
ad una seconda lettura sembra già più un esempio, sia pure "alto", di ciò che
si può chiamare progetto di eco-capitalismo o capitalismo naturale, cioè
di un sistema che contabilizza le risorse e mira all’efficienza per riuscire a produrre di più sprecando di meno. In questa prospettiva, magari forzando un po', il vero nemico è l'uomo, l'uomo sprecone e vizioso, pieno di pregiudizi e di sfiducia nella scienza e nella tecnica. Al contrario, la "natura" appare come una potenziale socia in affari purché venga adeguatamente "valorizzata" investendo nella protezione e nell’espansione del capitale naturale esistente.
Molto più interessante mi sembra l'articolo della Manuela Giovannetti, che provo a postare dopo di questo.
ad una seconda lettura sembra già più un esempio, sia pure "alto", di ciò che
si può chiamare progetto di eco-capitalismo o capitalismo naturale, cioè
di un sistema che contabilizza le risorse e mira all’efficienza per riuscire a produrre di più sprecando di meno. In questa prospettiva, magari forzando un po', il vero nemico è l'uomo, l'uomo sprecone e vizioso, pieno di pregiudizi e di sfiducia nella scienza e nella tecnica. Al contrario, la "natura" appare come una potenziale socia in affari purché venga adeguatamente "valorizzata" investendo nella protezione e nell’espansione del capitale naturale esistente.
Molto più interessante mi sembra l'articolo della Manuela Giovannetti, che provo a postare dopo di questo.
stefanoisola- Messaggi : 44
Data di iscrizione : 04.03.09
Un articolo di Manuela Giovannetti
Manuela Giovannetti (Università di Pisa)
Piante trasgeniche, ecosistemi e geni della morte (IL PONTE, Anno LV, n. 9, settembre 1999, pp. 104-110)
I principali motivi che hanno scatenato ondate di articoli giornalistici
sulle biotecnologie sono stati i recenti scandali alimentari del "pollo alla
diossina" e di "mucca pazza", che niente hanno a che fare con le biotecnologie
stesse. Al contrario, i casi menzionati riguardano il cibo, ed infatti è attraverso
la loro associazione con il cibo che è stato possibile effettuare operazioni
culturali come quella che ha portato a discutere di biotecnologie e piante
transgeniche in contrapposizione a "sapori antichi" e "slow food". Così, si è
arrivati a mettere in discussione, al massimo, gli allevamenti intensivi, nel caso
del "pollo alla diossina", ed il fatto che un erbivoro fosse stato alimentato come
un carnivoro, nel caso di "mucca pazza". Utilizzando questo sistema, che
preferirei chiamare trucco, si è evitato che il cittadino-consumatore medio si
ponesse domande quali:
a) come è possibile che olio di scarto contenente diossina finisca negli alimenti
dei polli?
b) come possono cadaveri di pecore malate finire nei mangimi delle mucche,
senza neanche avere la certezza che non contengano più l'agente infettante?
Soprattutto si è evitato di dire al cittadino-consumatore che dietro ad ogni
caso/scandalo ci sono stati forti interessi economici dei quali si è spesso taciuto,
e che i vari governi europei nell'emanare leggi e nel fare controlli non hanno
certamente difeso la salute e la sicurezza alimentare del cittadino-consumatore
stesso.
Analogamente, ogni volta che si cerca di discutere seriamente dei rischi
connessi alla coltivazione ed alla utilizzazione di piante transgeniche, si innesca
il meccanismo sopra descritto di associazione col cibo, che porta
inevitabilmente a considerazioni sulle possibilità che il cibo transgenico sia
dannoso per la salute umana, e provochi reazioni allergiche ed intolleranze
alimentari. Questo argomento è molto importante, è stato molto dibattuto ed è
oggetto di controversie internazionali, riguardanti soprattutto le importazioni di
cibi transgenici dagli Stati Uniti d'America all'Europa. I governi di molte
nazioni, tra cui India, Norvegia e Danimarca, insieme a Consumers
International, una federazione di 246 organizzazioni di consumatori, chiedono
da tempo che tutti i cibi prodotti attraverso tecniche di modificazione genetica
(GM) siano etichettati, opponendosi al concetto di "sostanziale equivalenza"
introdotto nel 1993 dalla Organization for Economic Cooperation and
Development (OECD), in base a cui i cibi GM sono comparati con i
corrispettivi non-GM, in termini di tossicità e qualità nutrizionali. La
etichettatura faciliterebbe lo svolgimento di studi epidemiologici per
determinare qualsiasi aumento delle allergie o malattie possibilmente collegate
al cibo transgenico.
Al di là del rischio alimentare dei cibi transgenici, che suscita così tanto
interesse nei media, a mio parere i pericoli più grandi connessi all'uso di piante
transgeniche riguardano la loro stessa coltivazione, poichè del destino dei geni
modificati dopo il loro rilascio nell'ambiente non si conosce ancora quasi
niente. In particolare non si conoscono gli effetti che le piante transgeniche
coltivate possono avere su tutti gli altri componenti dell'ecosistema, come gli
insetti e gli uccelli che si cibano delle loro foglie e radici. Né si conoscono le
interazioni delle enormi quantità di residui della coltivazione delle piante
transgeniche con i microrganismi del suolo che decompongono l'intera pianta e
rimettono in circolo gli elementi nutritivi. Di certo sappiamo che in natura i
geni possono essere trasferiti da un organismo all'altro, esattamente come in
laboratorio.
Di seguito cercherò di descrivere i principali rischi ambientali connessi
alla coltivazione di piante geneticamente modificate, utilizzando i dati della
letteratura scientifica internazionale, e citerò l'esempio della modificazione
delle piante con la tecnologia "Terminator", il gene della morte, a sostegno
della tesi che l'assenza di scienza e coscienza, e la contemporanea presenza di
forti interessi economici, costituiscono la base dei disastri ambientali passati e
futuri.
Piante transgeniche.
Gli organismi geneticamente modificati (OGM), definiti anche
transgenici, sono prodotti utilizzando processi di ingegneria genetica, che
permette l'aggiunta di nuovi geni o il cambiamento di geni già esistenti
nell'organismo oggetto della manipolazione. Siccome il codice genetico è
universale, geni prelevati da topi o da batteri possono funzionare bene in
organismi vegetali come mais o cotone e viceversa. Il processo di trasferimento
di geni da una specie all'altra prende il nome di trasformazione, i geni inseriti
nella nuova specie sono definiti transgeni ed il prodotto è un organismo
transgenico.
Le piante transgeniche sono diventate una importante realtà commerciale
in agricoltura in pochissimi anni: nel 1996 solo una varietà di mais transgenico
era coltivata negli USA ed interessava lo 0,75% dei terreni coltivati a mais; nel
1997 le varietà diverse di mais transgenico coltivate erano sette ed
interessavano il 9% delle colture di mais; nel 1998 undici varietà transgeniche
rappresentavano il 25% della superficie totale coltivata a mais (Nature, 398,
736). Oltre al mais, anche la soia transgenica ha rapidamente invaso il mercato
agricolo americano: ingegnerizzata dalla Corporazione Monsanto, la soia
Roundup Ready® contiene nel suo patrimonio genetico un gene batterico che la
rende tollerante all'erbicida Roundup® , prodotto anch'esso da Monsanto.
Questa soia fu introdotta per la prima volta nel 1996 e si stima che nel 1998 ne
siano stati coltivati negli USA circa 18 milioni di acri (Horstmeier, 1998).
La maggior parte delle piante transgeniche attualmente coltivate sono
state modificate per renderle tolleranti a erbicidi o ad insetti dannosi. Per
quanto riguarda le varietà erbicida-tolleranti, quelle coltivate più comunemente
sono in grado di crescere bene in presenza di erbicidi come il glifosato e
glufosinato, che possono così essere distribuiti sulle colture senza danneggiarle:
oltre alla soia già citata, un altro esempio è costituito dalla varietà di mais
"T25", prodotto dalla compagnia biotecnologica tedesca AgrEvo.
Per quanto riguarda le varietà di piante resistenti ad insetti, gli esempi più
importanti sono costitutiti da mais, cotone e patate Bt, varietà geneticamente
modificate per produrre tossine che in natura sono prodotte da un batterio del
terreno, Bacillus thuringensis (Bt). Dal 1995, anno di registrazione delle colture
Bt da parte della Environmental Protection Agency degli USA, sono state
approvate sette varietà di mais, una di cotone ed una di patata, prodotte dalle
multinazionali Monsanto, Novartis, Mycogen, DeKalb, AgrEvo. Nel 1998 circa
20 milioni di acri sono stati coltivati con varietà Bt negli Stati Uniti, 15 milioni
dei quali erano costituiti da mais, che rappresentavano il 20% circa della
superficie totale coltivata a mais (Nature, 397, 636). E' interessante notare,
anche ai fini di quanto verrà discusso in seguito, che ogni singola cellula di
ogni singola pianta coltivata contiene il gene attivo e produce tossine.
--- continua ---
Piante trasgeniche, ecosistemi e geni della morte (IL PONTE, Anno LV, n. 9, settembre 1999, pp. 104-110)
I principali motivi che hanno scatenato ondate di articoli giornalistici
sulle biotecnologie sono stati i recenti scandali alimentari del "pollo alla
diossina" e di "mucca pazza", che niente hanno a che fare con le biotecnologie
stesse. Al contrario, i casi menzionati riguardano il cibo, ed infatti è attraverso
la loro associazione con il cibo che è stato possibile effettuare operazioni
culturali come quella che ha portato a discutere di biotecnologie e piante
transgeniche in contrapposizione a "sapori antichi" e "slow food". Così, si è
arrivati a mettere in discussione, al massimo, gli allevamenti intensivi, nel caso
del "pollo alla diossina", ed il fatto che un erbivoro fosse stato alimentato come
un carnivoro, nel caso di "mucca pazza". Utilizzando questo sistema, che
preferirei chiamare trucco, si è evitato che il cittadino-consumatore medio si
ponesse domande quali:
a) come è possibile che olio di scarto contenente diossina finisca negli alimenti
dei polli?
b) come possono cadaveri di pecore malate finire nei mangimi delle mucche,
senza neanche avere la certezza che non contengano più l'agente infettante?
Soprattutto si è evitato di dire al cittadino-consumatore che dietro ad ogni
caso/scandalo ci sono stati forti interessi economici dei quali si è spesso taciuto,
e che i vari governi europei nell'emanare leggi e nel fare controlli non hanno
certamente difeso la salute e la sicurezza alimentare del cittadino-consumatore
stesso.
Analogamente, ogni volta che si cerca di discutere seriamente dei rischi
connessi alla coltivazione ed alla utilizzazione di piante transgeniche, si innesca
il meccanismo sopra descritto di associazione col cibo, che porta
inevitabilmente a considerazioni sulle possibilità che il cibo transgenico sia
dannoso per la salute umana, e provochi reazioni allergiche ed intolleranze
alimentari. Questo argomento è molto importante, è stato molto dibattuto ed è
oggetto di controversie internazionali, riguardanti soprattutto le importazioni di
cibi transgenici dagli Stati Uniti d'America all'Europa. I governi di molte
nazioni, tra cui India, Norvegia e Danimarca, insieme a Consumers
International, una federazione di 246 organizzazioni di consumatori, chiedono
da tempo che tutti i cibi prodotti attraverso tecniche di modificazione genetica
(GM) siano etichettati, opponendosi al concetto di "sostanziale equivalenza"
introdotto nel 1993 dalla Organization for Economic Cooperation and
Development (OECD), in base a cui i cibi GM sono comparati con i
corrispettivi non-GM, in termini di tossicità e qualità nutrizionali. La
etichettatura faciliterebbe lo svolgimento di studi epidemiologici per
determinare qualsiasi aumento delle allergie o malattie possibilmente collegate
al cibo transgenico.
Al di là del rischio alimentare dei cibi transgenici, che suscita così tanto
interesse nei media, a mio parere i pericoli più grandi connessi all'uso di piante
transgeniche riguardano la loro stessa coltivazione, poichè del destino dei geni
modificati dopo il loro rilascio nell'ambiente non si conosce ancora quasi
niente. In particolare non si conoscono gli effetti che le piante transgeniche
coltivate possono avere su tutti gli altri componenti dell'ecosistema, come gli
insetti e gli uccelli che si cibano delle loro foglie e radici. Né si conoscono le
interazioni delle enormi quantità di residui della coltivazione delle piante
transgeniche con i microrganismi del suolo che decompongono l'intera pianta e
rimettono in circolo gli elementi nutritivi. Di certo sappiamo che in natura i
geni possono essere trasferiti da un organismo all'altro, esattamente come in
laboratorio.
Di seguito cercherò di descrivere i principali rischi ambientali connessi
alla coltivazione di piante geneticamente modificate, utilizzando i dati della
letteratura scientifica internazionale, e citerò l'esempio della modificazione
delle piante con la tecnologia "Terminator", il gene della morte, a sostegno
della tesi che l'assenza di scienza e coscienza, e la contemporanea presenza di
forti interessi economici, costituiscono la base dei disastri ambientali passati e
futuri.
Piante transgeniche.
Gli organismi geneticamente modificati (OGM), definiti anche
transgenici, sono prodotti utilizzando processi di ingegneria genetica, che
permette l'aggiunta di nuovi geni o il cambiamento di geni già esistenti
nell'organismo oggetto della manipolazione. Siccome il codice genetico è
universale, geni prelevati da topi o da batteri possono funzionare bene in
organismi vegetali come mais o cotone e viceversa. Il processo di trasferimento
di geni da una specie all'altra prende il nome di trasformazione, i geni inseriti
nella nuova specie sono definiti transgeni ed il prodotto è un organismo
transgenico.
Le piante transgeniche sono diventate una importante realtà commerciale
in agricoltura in pochissimi anni: nel 1996 solo una varietà di mais transgenico
era coltivata negli USA ed interessava lo 0,75% dei terreni coltivati a mais; nel
1997 le varietà diverse di mais transgenico coltivate erano sette ed
interessavano il 9% delle colture di mais; nel 1998 undici varietà transgeniche
rappresentavano il 25% della superficie totale coltivata a mais (Nature, 398,
736). Oltre al mais, anche la soia transgenica ha rapidamente invaso il mercato
agricolo americano: ingegnerizzata dalla Corporazione Monsanto, la soia
Roundup Ready® contiene nel suo patrimonio genetico un gene batterico che la
rende tollerante all'erbicida Roundup® , prodotto anch'esso da Monsanto.
Questa soia fu introdotta per la prima volta nel 1996 e si stima che nel 1998 ne
siano stati coltivati negli USA circa 18 milioni di acri (Horstmeier, 1998).
La maggior parte delle piante transgeniche attualmente coltivate sono
state modificate per renderle tolleranti a erbicidi o ad insetti dannosi. Per
quanto riguarda le varietà erbicida-tolleranti, quelle coltivate più comunemente
sono in grado di crescere bene in presenza di erbicidi come il glifosato e
glufosinato, che possono così essere distribuiti sulle colture senza danneggiarle:
oltre alla soia già citata, un altro esempio è costituito dalla varietà di mais
"T25", prodotto dalla compagnia biotecnologica tedesca AgrEvo.
Per quanto riguarda le varietà di piante resistenti ad insetti, gli esempi più
importanti sono costitutiti da mais, cotone e patate Bt, varietà geneticamente
modificate per produrre tossine che in natura sono prodotte da un batterio del
terreno, Bacillus thuringensis (Bt). Dal 1995, anno di registrazione delle colture
Bt da parte della Environmental Protection Agency degli USA, sono state
approvate sette varietà di mais, una di cotone ed una di patata, prodotte dalle
multinazionali Monsanto, Novartis, Mycogen, DeKalb, AgrEvo. Nel 1998 circa
20 milioni di acri sono stati coltivati con varietà Bt negli Stati Uniti, 15 milioni
dei quali erano costituiti da mais, che rappresentavano il 20% circa della
superficie totale coltivata a mais (Nature, 397, 636). E' interessante notare,
anche ai fini di quanto verrà discusso in seguito, che ogni singola cellula di
ogni singola pianta coltivata contiene il gene attivo e produce tossine.
--- continua ---
stefanoisola- Messaggi : 44
Data di iscrizione : 04.03.09
Manuela Giovannetti - seconda parte
Rischi connessi alla coltivazione di piante transgeniche.
I rischi ecologici connessi al rilascio nell'ambiente di piante
geneticamente modificate sono stati e sono tuttora al centro di controversie
internazionali, sia in ambito scientifico che politico (Rissler, Mellon, 1996).
Uno dei primi rischi di cui si è discusso è rappresentato dalla possibilità di
diffusione del polline proveniente dalle piante transgeniche, attraverso il vento
o gli insetti impollinatori. La propagazione dei transgeni attraverso il polline è
inevitabile ed ingovernabile e sono stati ormai descritti molti casi di
ibridizzazione tra specie transgeniche coltivate e specie correlate che crescono
spontanee nei campi vicini (Bergelson, Purrington, Wichman, 1998). Per
esempio, la ibridizzazione tra Brassica napus (colza) transgenica, tollerante
l'erbicida glufosinato, e Brassica campestris è stata provata in esperimenti in
campo, e gli ibridi interspecifici della seconda generazione contenevano il
transgene della tolleranza all'erbicida (Mikkelsen, Andersen, Jorgensen, 1996).
E' evidente che la rapida propagazione di geni per la tolleranza agli erbicidi
potrebbe portare in tempi brevi alla nascita di piante spontanee altamente
invasive e non più controllabili con gli erbicidi conosciuti, o alla proliferazione
di piante "superinfestanti". Il rischio di impollinazione incrociata e di diffusione
incontrollata dei transgeni diventa molto alto nelle colture agrarie, dove
possono venire coltivate varietà GM e non-GM a distanze non di sicurezza.
Proprio perchè non siamo ancora certi del destino dei transgeni in natura, la
Svizzera ha recentemente negato il permesso di condurre sperimentazioni in
campo con la varietà di mais transgenica T25 alla compagnia biotecnologica
tedesca AgrEvo, sulla base del fatto che i dati sulla valutazione del rischio
erano inadeguati e che dovevano essere presentati piani di monitoraggio del
flusso potenziale di geni verso le piante vicine e gli organismi viventi nel
terreno (Nature, 398, 736). Questo è uno dei primi esempi di applicazione del
"principio di precauzione", che dovrebbe essere alla base di ogni azione umana.
In realtà, flusso di geni da piante coltivate a piante spontanee vicine è stato già
documentato per piante come mais, carota, sorgo, girasole, fragola, barbabietola
(Nature, 392, 653-654).
Il rischio di inquinamento genetico incontrollabile riguarda anche le
varietà transgeniche Bt, che producono tossine attive contro insetti dannosi.
Oltre a tale rischio, nelle colture di piante Bt, potrebbe verificarsi, nel giro di
pochi anni, l'evoluzione della resistenza alle tossine negli insetti-target
(bersaglio), dovuta alla forte pressione selettiva esercitata sugli insetti stessi
dalla produzione costante di tali tossine in ogni cellula della pianta (Gould,
1997).
Molte associazioni americane di produttori di pesticidi e di semi Bt
sottolineano che i rischi ambientali non sono ancora provati sperimentalmente,
e che mancano dati scientifici sul trasferimento di transgeni Bt a piante vicine, o
sui danni delle tossine Bt ad insetti utili o ad altri organismi. Al contrario, nel
caso del mais, una recente ricerca pubblicata sull'autorevole rivista scientifica
Nature ha dimostrato che il polline proveniente da mais Bt depositato sulle
foglie di una diversa specie di pianta provocava la morte del 40% circa delle
farfalle monarca che si cibavano di tali foglie (Losey, Raynor, Carter, 1999). La
farfalla monarca non è un insetto dannoso, è semplicemente uno dei tanti
organismi che vivono nei prati, vicini o lontani dai campi coltivati, e che non
costituiscono certo il bersaglio delle tossine prodotte dalle piante transgeniche
Bt: sono cioè insetti non-target. Altre ricerche hanno dimostrato un impatto
negativo su insetti non-target, che avevano ingerito a loro volta insetti
alimentati con piante transgeniche produttrici di tossine (Hilbeck, 1998). I
potenziali pericoli ambientali risiedono quindi nella possibilità concreta che si
verifichi una catena di eventi dannosi per tutti gli organismi viventi in un dato
ecosistema.
Ai sostenitori del rischio zero potrebbe essere posta la seguente domanda:
quanti organismi non-target possono essere messi a rischio dalle tossine Bt
quando il polline che le contiene è disperso dal vento e si deposita su tutte le
specie di piante viventi nel raggio di almeno 60 metri dalle coltivazioni? Se si
pensa poi alla enorme quantità di residui vegetali che le coltivazioni di mais
lasciano sui terreni agrari, residui che vengono interrati e sono ingeriti dalla
microfauna del suolo e degradati dai microrganismi, non possiamo escludere
che le tossine Bt, contenute in ogni cellula di ogni pianta, possano interagire
negativamente con altri componenti dell'ecosistema e costituire un reale rischio
per organismi non-target.
Dunque l'inquinamento genetico provocato dalla coltivazione delle piante
transgeniche ha profonde implicazioni per la conservazione della biodiversità.
Anche Robert May, il principale consigliere scientifico del governo britannico,
che minimizza i rischi derivanti dall'evoluzione di possibili "superinfestanti" e
dalla impollinazione incrociata, si è mostrato invece preoccupato per l'impatto
che le piante geneticamente modificate possono avere sulla conservazione della
biodiversità e del paesaggio naturale (Nature, 398, 654).
La consapevolezza che gli scienziati non conoscono in anticipo tutte le
possibili interazioni tra i geni introdotti nel patrimonio genetico di una pianta e
l'intero ecosistema, dovrebbe guidare l'azione dei governi europei, per poter
garantire la sicurezza alimentare, la salvaguardia dell'ambiente, la difesa della
biodiversità. Solo ricerche sperimentali a lungo termine ed in campo, sottoposte
a controlli pubblici rigorosi e trasparenti, potranno produrre serie valutazioni di
impatto ambientale delle piante transgeniche e chiarire alcune delle incognite
che i bioingegneri non riescono a calcolare a causa della complessità degli
ecosistemi.
I geni della morte.
Nell' agricoltura moderna alcune colture, tra cui il mais, non sono
riseminate utilizzando i semi prodotti dal raccolto precedente, ma sono
regolarmente vendute ogni anno agli agricoltori dalle grandi industrie
sementiere che selezionano sementi ibride per l'agricoltura intensiva. Molte
altre colture importanti, come riso, grano, soia, cotone, non sono invece
coltivate da semi ibridi, e spesso i contadini, specialmente nei paesi più poveri,
utilizzano la pratica antica di seminare i campi con i semi prodotti dal proprio
raccolto. Questa pratica non sarà più possibile se un brevetto americano del
1998 sarà utilizzato per costruire piante geneticamente modificate perchè
uccidano i loro stessi semi di seconda generazione. Tale brevetto è stato
denominato "Terminator Technology" dal RAFI (Rural Advancement
Foundation International), una organizzazione internazionale dedicata alla
conservazione ed allo sviluppo sostenibile della biodiversità in agricoltura ,che
ha analizzato le possibili implicazioni sociali, economiche ed ambientali
dell'invenzione. Non è questa la sede per descrivere nel dettaglio il complicato
processo che induce i semi al suicidio invece che alla germinazione. In sintesi,
la pianta ingegnerizzata contiene il gene per la produzione di una tossina che
ucciderà il seme prodotto dalla pianta stessa. Tra le tante tossine possibili, gli
inventori di Terminator suggeriscono di utilizzare una proteina che inibisce la
sintesi delle proteine, in mancanza delle quali ogni pianta muore in tempi brevi,
e che sostengono non essere attiva contro organismi diversi dalle piante.
Per quanto sopra discusso riguardo ai rischi di propagazione del polline
transgenico nell'ambiente e di impollinazione incrociata con piante vicine della
stessa specie, possiamo facilmente immaginare il disastro ecologico che
potrebbe derivare dal rilascio nell'ambiente agrario di semi transgenici
contenenti "geni della morte". Inoltre tali semi potrebbero avere effetti
imprevedibili sugli organismi che se ne cibano, come uccelli ed insetti, e sui
microrganismi del suolo, che li utilizzano dopo averli degradati. Siccome si
conosce ancora molto poco di come i geni siano attivati e disattivati nei vari
organismi, e sono noti casi di geni introdotti in una pianta per una precisa
funzione che in realtà hanno funzionato in tutt'altro modo, potrebbe avvenire
che i geni della morte siano attivati improvvisamente in tempi diversi ed in siti
diversi dal seme.
Come sostiene Martha Crouch, Professore di Biologia all'Università
dell'Indiana, gli inventori di Terminator nella descrizione del loro brevetto
mostrano un modo di pensare pericolosamente riduzionista, omettendo di
considerare qualsiasi effetto sulla ecologia di tutti gli organismi che possono
venire in contatto con i geni della morte. Certo è che interferire così
pesantemente su processi naturali fondamentali della vita senza conoscere
niente delle lunghe catene di relazioni tra componenti diversi e lontani degli
ecosistemi, può produrre effetti globali inaspettati, imprevedibili e disastrosi.
A questo punto si impone una riflessione sulle possibili conseguenze che
l'utilizzazione e diffusione della tecnologia Terminator potrebbe avere sulla
sopravvivenza delle popolazioni dei paesi più poveri. L'introduzione dei geni
della morte in colture fondamentali come il riso o il grano potrebbe consegnare
nelle mani delle multinazionali delle sementi la sorte di interi paesi. Le
implicazioni di Terminator sono quindi anche di natura sociale e politica, oltre
che economica.
Sarebbe opportuno che l'interesse di politici e studiosi di bioetica, così
forte per la sorte degli embrioni oggetto di studio o frutto di fecondazioni in
vitro si estendesse anche ai geni della morte, dalla cui commercializzazione può
dipendere la sorte di milioni di persone.
BIBLIOGRAFIA
- Mikkelsen, T. R., Andersen B., Jorgensen R. B. 1996. The risk of crop
transgene spread. Nature, vol. 380, pag. 31.
- Bergelson, J., Purrington C. B., Wichman G. 1998. Promiscuity in transgenic
plants. Nature, vol. 395, pag. 25.
- Losey, J. E., Raynor L. S., Carter M. E. 1999. Transgenic pollen harms
monarch larvae. Nature, vol. 399, pag. 214.
- Hilbeck, A. 1998. Environemental Entomology, vol. 27, pagg. 480-487. ???
- Rissler, J., Mellon M. 1996. The ecological risk of engineered crops. The MIT
Press, Cambridge, Massachussetts, U. S. A.
I rischi ecologici connessi al rilascio nell'ambiente di piante
geneticamente modificate sono stati e sono tuttora al centro di controversie
internazionali, sia in ambito scientifico che politico (Rissler, Mellon, 1996).
Uno dei primi rischi di cui si è discusso è rappresentato dalla possibilità di
diffusione del polline proveniente dalle piante transgeniche, attraverso il vento
o gli insetti impollinatori. La propagazione dei transgeni attraverso il polline è
inevitabile ed ingovernabile e sono stati ormai descritti molti casi di
ibridizzazione tra specie transgeniche coltivate e specie correlate che crescono
spontanee nei campi vicini (Bergelson, Purrington, Wichman, 1998). Per
esempio, la ibridizzazione tra Brassica napus (colza) transgenica, tollerante
l'erbicida glufosinato, e Brassica campestris è stata provata in esperimenti in
campo, e gli ibridi interspecifici della seconda generazione contenevano il
transgene della tolleranza all'erbicida (Mikkelsen, Andersen, Jorgensen, 1996).
E' evidente che la rapida propagazione di geni per la tolleranza agli erbicidi
potrebbe portare in tempi brevi alla nascita di piante spontanee altamente
invasive e non più controllabili con gli erbicidi conosciuti, o alla proliferazione
di piante "superinfestanti". Il rischio di impollinazione incrociata e di diffusione
incontrollata dei transgeni diventa molto alto nelle colture agrarie, dove
possono venire coltivate varietà GM e non-GM a distanze non di sicurezza.
Proprio perchè non siamo ancora certi del destino dei transgeni in natura, la
Svizzera ha recentemente negato il permesso di condurre sperimentazioni in
campo con la varietà di mais transgenica T25 alla compagnia biotecnologica
tedesca AgrEvo, sulla base del fatto che i dati sulla valutazione del rischio
erano inadeguati e che dovevano essere presentati piani di monitoraggio del
flusso potenziale di geni verso le piante vicine e gli organismi viventi nel
terreno (Nature, 398, 736). Questo è uno dei primi esempi di applicazione del
"principio di precauzione", che dovrebbe essere alla base di ogni azione umana.
In realtà, flusso di geni da piante coltivate a piante spontanee vicine è stato già
documentato per piante come mais, carota, sorgo, girasole, fragola, barbabietola
(Nature, 392, 653-654).
Il rischio di inquinamento genetico incontrollabile riguarda anche le
varietà transgeniche Bt, che producono tossine attive contro insetti dannosi.
Oltre a tale rischio, nelle colture di piante Bt, potrebbe verificarsi, nel giro di
pochi anni, l'evoluzione della resistenza alle tossine negli insetti-target
(bersaglio), dovuta alla forte pressione selettiva esercitata sugli insetti stessi
dalla produzione costante di tali tossine in ogni cellula della pianta (Gould,
1997).
Molte associazioni americane di produttori di pesticidi e di semi Bt
sottolineano che i rischi ambientali non sono ancora provati sperimentalmente,
e che mancano dati scientifici sul trasferimento di transgeni Bt a piante vicine, o
sui danni delle tossine Bt ad insetti utili o ad altri organismi. Al contrario, nel
caso del mais, una recente ricerca pubblicata sull'autorevole rivista scientifica
Nature ha dimostrato che il polline proveniente da mais Bt depositato sulle
foglie di una diversa specie di pianta provocava la morte del 40% circa delle
farfalle monarca che si cibavano di tali foglie (Losey, Raynor, Carter, 1999). La
farfalla monarca non è un insetto dannoso, è semplicemente uno dei tanti
organismi che vivono nei prati, vicini o lontani dai campi coltivati, e che non
costituiscono certo il bersaglio delle tossine prodotte dalle piante transgeniche
Bt: sono cioè insetti non-target. Altre ricerche hanno dimostrato un impatto
negativo su insetti non-target, che avevano ingerito a loro volta insetti
alimentati con piante transgeniche produttrici di tossine (Hilbeck, 1998). I
potenziali pericoli ambientali risiedono quindi nella possibilità concreta che si
verifichi una catena di eventi dannosi per tutti gli organismi viventi in un dato
ecosistema.
Ai sostenitori del rischio zero potrebbe essere posta la seguente domanda:
quanti organismi non-target possono essere messi a rischio dalle tossine Bt
quando il polline che le contiene è disperso dal vento e si deposita su tutte le
specie di piante viventi nel raggio di almeno 60 metri dalle coltivazioni? Se si
pensa poi alla enorme quantità di residui vegetali che le coltivazioni di mais
lasciano sui terreni agrari, residui che vengono interrati e sono ingeriti dalla
microfauna del suolo e degradati dai microrganismi, non possiamo escludere
che le tossine Bt, contenute in ogni cellula di ogni pianta, possano interagire
negativamente con altri componenti dell'ecosistema e costituire un reale rischio
per organismi non-target.
Dunque l'inquinamento genetico provocato dalla coltivazione delle piante
transgeniche ha profonde implicazioni per la conservazione della biodiversità.
Anche Robert May, il principale consigliere scientifico del governo britannico,
che minimizza i rischi derivanti dall'evoluzione di possibili "superinfestanti" e
dalla impollinazione incrociata, si è mostrato invece preoccupato per l'impatto
che le piante geneticamente modificate possono avere sulla conservazione della
biodiversità e del paesaggio naturale (Nature, 398, 654).
La consapevolezza che gli scienziati non conoscono in anticipo tutte le
possibili interazioni tra i geni introdotti nel patrimonio genetico di una pianta e
l'intero ecosistema, dovrebbe guidare l'azione dei governi europei, per poter
garantire la sicurezza alimentare, la salvaguardia dell'ambiente, la difesa della
biodiversità. Solo ricerche sperimentali a lungo termine ed in campo, sottoposte
a controlli pubblici rigorosi e trasparenti, potranno produrre serie valutazioni di
impatto ambientale delle piante transgeniche e chiarire alcune delle incognite
che i bioingegneri non riescono a calcolare a causa della complessità degli
ecosistemi.
I geni della morte.
Nell' agricoltura moderna alcune colture, tra cui il mais, non sono
riseminate utilizzando i semi prodotti dal raccolto precedente, ma sono
regolarmente vendute ogni anno agli agricoltori dalle grandi industrie
sementiere che selezionano sementi ibride per l'agricoltura intensiva. Molte
altre colture importanti, come riso, grano, soia, cotone, non sono invece
coltivate da semi ibridi, e spesso i contadini, specialmente nei paesi più poveri,
utilizzano la pratica antica di seminare i campi con i semi prodotti dal proprio
raccolto. Questa pratica non sarà più possibile se un brevetto americano del
1998 sarà utilizzato per costruire piante geneticamente modificate perchè
uccidano i loro stessi semi di seconda generazione. Tale brevetto è stato
denominato "Terminator Technology" dal RAFI (Rural Advancement
Foundation International), una organizzazione internazionale dedicata alla
conservazione ed allo sviluppo sostenibile della biodiversità in agricoltura ,che
ha analizzato le possibili implicazioni sociali, economiche ed ambientali
dell'invenzione. Non è questa la sede per descrivere nel dettaglio il complicato
processo che induce i semi al suicidio invece che alla germinazione. In sintesi,
la pianta ingegnerizzata contiene il gene per la produzione di una tossina che
ucciderà il seme prodotto dalla pianta stessa. Tra le tante tossine possibili, gli
inventori di Terminator suggeriscono di utilizzare una proteina che inibisce la
sintesi delle proteine, in mancanza delle quali ogni pianta muore in tempi brevi,
e che sostengono non essere attiva contro organismi diversi dalle piante.
Per quanto sopra discusso riguardo ai rischi di propagazione del polline
transgenico nell'ambiente e di impollinazione incrociata con piante vicine della
stessa specie, possiamo facilmente immaginare il disastro ecologico che
potrebbe derivare dal rilascio nell'ambiente agrario di semi transgenici
contenenti "geni della morte". Inoltre tali semi potrebbero avere effetti
imprevedibili sugli organismi che se ne cibano, come uccelli ed insetti, e sui
microrganismi del suolo, che li utilizzano dopo averli degradati. Siccome si
conosce ancora molto poco di come i geni siano attivati e disattivati nei vari
organismi, e sono noti casi di geni introdotti in una pianta per una precisa
funzione che in realtà hanno funzionato in tutt'altro modo, potrebbe avvenire
che i geni della morte siano attivati improvvisamente in tempi diversi ed in siti
diversi dal seme.
Come sostiene Martha Crouch, Professore di Biologia all'Università
dell'Indiana, gli inventori di Terminator nella descrizione del loro brevetto
mostrano un modo di pensare pericolosamente riduzionista, omettendo di
considerare qualsiasi effetto sulla ecologia di tutti gli organismi che possono
venire in contatto con i geni della morte. Certo è che interferire così
pesantemente su processi naturali fondamentali della vita senza conoscere
niente delle lunghe catene di relazioni tra componenti diversi e lontani degli
ecosistemi, può produrre effetti globali inaspettati, imprevedibili e disastrosi.
A questo punto si impone una riflessione sulle possibili conseguenze che
l'utilizzazione e diffusione della tecnologia Terminator potrebbe avere sulla
sopravvivenza delle popolazioni dei paesi più poveri. L'introduzione dei geni
della morte in colture fondamentali come il riso o il grano potrebbe consegnare
nelle mani delle multinazionali delle sementi la sorte di interi paesi. Le
implicazioni di Terminator sono quindi anche di natura sociale e politica, oltre
che economica.
Sarebbe opportuno che l'interesse di politici e studiosi di bioetica, così
forte per la sorte degli embrioni oggetto di studio o frutto di fecondazioni in
vitro si estendesse anche ai geni della morte, dalla cui commercializzazione può
dipendere la sorte di milioni di persone.
BIBLIOGRAFIA
- Mikkelsen, T. R., Andersen B., Jorgensen R. B. 1996. The risk of crop
transgene spread. Nature, vol. 380, pag. 31.
- Bergelson, J., Purrington C. B., Wichman G. 1998. Promiscuity in transgenic
plants. Nature, vol. 395, pag. 25.
- Losey, J. E., Raynor L. S., Carter M. E. 1999. Transgenic pollen harms
monarch larvae. Nature, vol. 399, pag. 214.
- Hilbeck, A. 1998. Environemental Entomology, vol. 27, pagg. 480-487. ???
- Rissler, J., Mellon M. 1996. The ecological risk of engineered crops. The MIT
Press, Cambridge, Massachussetts, U. S. A.
stefanoisola- Messaggi : 44
Data di iscrizione : 04.03.09
ancora su clima ed ecocapitalismo
cari viandanti,
riguardo alle questioni sollevate dall'articolo di G.F. Bologna postato da Giulio
allego questa lettera (fatta circolare da Mario Monforte) di Michelangiolo Bolognini (medico oncologo, responsabile dell’Igiene e sanità pubblica dell’ASL3-Zona Pistoiese, si occupa di rischi sanitari in campo ambientale e fa parte di Medicina democratica, Pistoia).
Altri due articoli molto interessanti di Bolognini sulla questione ambientale:
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=19715
e
http://www.pressante.com/index.php?option=com_content&task=view&id=794&Itemid=34
Saluti, Stefano
Lettera di Michelangiolo Bolognini
A costo di sembrare corrivo con i forzaitalioti sedicenti “popolo delle libertà” (meglio, delle nuove schiavitù), devo ribadire l’assoluta contrarietà personale a considerare prioritari i cambiamenti climatici nella parte in cui sarebbero derivati dalle attività antropiche (CO2).
Il «trattato di Kyoto» è solo una stronzata ecocapitalistica che mercifica l’aria mediante i diritti all’inquinamento, quotati alle borse merci, la cui difesa serve a rifarsi “verginità politiche” a legambientini e altri accoliti piú o meno sinistri, che sono poi favorevoli, non a caso, ai loro bravi “termovalorizzatori” (by partisan con Pdl e Pdl meno la «l»), piú o meno residuali (per esempio anche il segretario del Prc Ferrero) e sedicenti favorevoli a “rifiuti zero” (però al 2020 e non adesso), tipo anche l’inceneritorista governatore toscano Martini, che nell’attesa dei rifiuti zero costruisce nuovi inceneritori e amplia quelli esistenti.
Il fatto che la mistificazione climatica sia attaccata anche dalle destre lobbistiche filopetrolifere non toglie nulla alle argomentazioni critiche nei confronti della massa di “scienziati governativi” – tale è l’Ipcc, voluto dalla sig.ra Thatcher (informarsi, prego) e finanziato da Bush padre per rilanciare il nucleare. E faccio semplicemente notare che gli omologhi “sanitari” degli “scienziati governativi” dell’Ipcc sono il Veronesi e il Tirelli, comunque invito perlomeno a leggersi quello che scrive il prof Ortolani, che ci è a fianco in Campania http://meteolive.leonardo.it/meteo-notizia.php?id=21820 .
Quanto poi alle “esigenze planetarie”, sono ben piú legate alla spaventosa crescita degli inquinanti direttamente nocivi per le specie viventi (compreso gli esseri umani): la crescita dei P.O.P., dei metalli pesanti del micro- e nano-particolato è enormemente maggiore (e piú significativa) di quella della CO2 (che non è nemmeno un gas tossico) – moriremo prima di cancro e di alzheimer che di clima.
Devo purtroppo notare che il conformismo ambientalista egemone (notoriamente ecocapitalista,e non a caso ignorato dai volenterosi e innoqui ambientalisti http://www.ecologiapolitica.it/web/3/articoli/nebbia.htm) sta prendendo piede anche laddove ci dovrebbe essere piú avvedutezza (e meno conformismo).
Le priorità sono le nocività, in primis quelle evitabili come gli inceneritori: chi parla di altro, si fa complice, piú o meno consapevole, di una ben orchestrata strategia di disinformazione.
riguardo alle questioni sollevate dall'articolo di G.F. Bologna postato da Giulio
allego questa lettera (fatta circolare da Mario Monforte) di Michelangiolo Bolognini (medico oncologo, responsabile dell’Igiene e sanità pubblica dell’ASL3-Zona Pistoiese, si occupa di rischi sanitari in campo ambientale e fa parte di Medicina democratica, Pistoia).
Altri due articoli molto interessanti di Bolognini sulla questione ambientale:
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=19715
e
http://www.pressante.com/index.php?option=com_content&task=view&id=794&Itemid=34
Saluti, Stefano
Lettera di Michelangiolo Bolognini
A costo di sembrare corrivo con i forzaitalioti sedicenti “popolo delle libertà” (meglio, delle nuove schiavitù), devo ribadire l’assoluta contrarietà personale a considerare prioritari i cambiamenti climatici nella parte in cui sarebbero derivati dalle attività antropiche (CO2).
Il «trattato di Kyoto» è solo una stronzata ecocapitalistica che mercifica l’aria mediante i diritti all’inquinamento, quotati alle borse merci, la cui difesa serve a rifarsi “verginità politiche” a legambientini e altri accoliti piú o meno sinistri, che sono poi favorevoli, non a caso, ai loro bravi “termovalorizzatori” (by partisan con Pdl e Pdl meno la «l»), piú o meno residuali (per esempio anche il segretario del Prc Ferrero) e sedicenti favorevoli a “rifiuti zero” (però al 2020 e non adesso), tipo anche l’inceneritorista governatore toscano Martini, che nell’attesa dei rifiuti zero costruisce nuovi inceneritori e amplia quelli esistenti.
Il fatto che la mistificazione climatica sia attaccata anche dalle destre lobbistiche filopetrolifere non toglie nulla alle argomentazioni critiche nei confronti della massa di “scienziati governativi” – tale è l’Ipcc, voluto dalla sig.ra Thatcher (informarsi, prego) e finanziato da Bush padre per rilanciare il nucleare. E faccio semplicemente notare che gli omologhi “sanitari” degli “scienziati governativi” dell’Ipcc sono il Veronesi e il Tirelli, comunque invito perlomeno a leggersi quello che scrive il prof Ortolani, che ci è a fianco in Campania http://meteolive.leonardo.it/meteo-notizia.php?id=21820 .
Quanto poi alle “esigenze planetarie”, sono ben piú legate alla spaventosa crescita degli inquinanti direttamente nocivi per le specie viventi (compreso gli esseri umani): la crescita dei P.O.P., dei metalli pesanti del micro- e nano-particolato è enormemente maggiore (e piú significativa) di quella della CO2 (che non è nemmeno un gas tossico) – moriremo prima di cancro e di alzheimer che di clima.
Devo purtroppo notare che il conformismo ambientalista egemone (notoriamente ecocapitalista,e non a caso ignorato dai volenterosi e innoqui ambientalisti http://www.ecologiapolitica.it/web/3/articoli/nebbia.htm) sta prendendo piede anche laddove ci dovrebbe essere piú avvedutezza (e meno conformismo).
Le priorità sono le nocività, in primis quelle evitabili come gli inceneritori: chi parla di altro, si fa complice, piú o meno consapevole, di una ben orchestrata strategia di disinformazione.
stefanoisola- Messaggi : 44
Data di iscrizione : 04.03.09
Re: un articolo di G.F. Bologna
La questione ambientale è certamente molto complessa e necessita di “stare in guardia” contro molteplici furbeschi tentativi di utilizzarla per realizzare profitti distruggendo la natura travestiti da suoi amici (il rischio di “cadere in trappola”, o se preferiamo una metafora più "rapace" nelle grinfie degli “ecofurbi” è sempre incombente).
Non ho alcuna competenza professionale in materia, ragion per cui posso solo esprimere un bubbio a proposito di un’ affermazione di Michelangelo Bolognini (nell’ articolo “Inceneritori, propaganda e mercato assistito”, ove si leggono peraltro molte affermazioni che trovo perfettamente condivisibili ed esposte con esemplare chiarezza).
Vi si afferma fra l’ altro che una corretta raccolta differenziata dei rifiuti rende del tutto inutili gli inceneritori. Non credo che sia sostenibile che una raccolta differenziata, anche condotta nel migliore dei modi, consenta un riciclo, e tanto meno un riuso, integrale di tutti i rifiuti (lo impedisce il secondo principio della termodinamica, se anche non vogliamo considerare il controverso ma comunque a mio avviso geniale cosiddetto “terzo principio” di Georgescu Roegen).
Dunque in alternativa agli inceneritori credo che sarebbero per lo meno necessarie in una qualche ineliminabile misura le discariche (per quel minimo di rifiuti non altrimenti trattabile col riciclo o meglio il riuso previa raccolta differenziale, che le leggi naturali oggettivamente impongono). Non so questa affermazione sia condivisa dall' autore del testo (da qui il mio dubbio); credo di si. Comunque a mio modestissimo avviso é ineccepicile).
E’ inoltre molto difficile (specie per chi come me non ha competenze professionali in materia) considerare una sorta di “graduatoria della gravità” dei molteplici attacchi all’ ambiente portati dalla tecnoscienza al servizio delle classi dominanti, e dunque delle priorità da stabilire nella lotta per la sua salvaguardia.
In proposito ho comunque l’ impressione (del tutto epidermica e superficiale: potrebbe benissimo essere erratata) che Bolognini trenda a sottovalutare l’ inquinamento da CO2 e simili e l’ effetto serra che tende a provocare (anche se mi sembrano ineccepibili le sue critiche all’ accordo di Kyoto ed alla mercificazione dei cosiddetti ossimorici -in una logica autenticamente umana; perfettamente logici per il capitalismo della tecnoscienza- “diritti di inquinamento” -sic!- così come la sua denuncia dell’ “ecocapitalismo” -altro ossimoro!- e dei danni provocati dagli inceneritori o termovalorizzatori che eufemisticamente dir si voglia): non dimentichiamo il pericolo di fare la fine della rana di Alberto Signorini.
Un’ altra questione sulla quale vorrei molto sommessamente e pacatamente esporre i miei dubbi (ben sapendo di incontrare la disapprovazione di molto viandanti, che invito candidamente a ragionare per cercare di convincermi) è quella della lotta non contro l’ incenerimento dei rifiuti o le discariche, bensì contro certi singoli inceneritori o certe singole discariche (o certe singole linee della TAV, ecc., ecc.), che ad essere sincero devo dier non mi ha mai convinto.
Ripeto che trovo ineccepibile e anzi molto doveroso lottare contro l’ incenerimento dei rifiuti (e per quanto possibile contro l’ accumulo dei rifiuti in discariche) in generale e dovunque attuato, specie se accompagnato dalla disponibilità a pagare il prezzo necessario in termini di riduzione dei consumi inutili o comunque ingiustificati. Però lottare solo contro l’ inceneritore o la discarica “sottocasa”, la sciando per lo meno sottintesa la possibilità che la soluzione del problema possa essere semplicemente il suo spostamento da qualche altra parte il più lontano possibile (inevitabilmente presso popolazioni troppo poco forti economicamente o politicamente per poterlo evitare), magari non facendo nulla per limitare il consumismo (che produce rifiuti) nel proprio territorio, mi sembra un' espressione patente di subalternità all’ atteggiamento grettamente e meschinamente egoistico proprio dell’ ideologia dominante dell’ odierno capitalismo della tecnoscienza: un atteggiamento che credo sia da superare come priorità assoluta!).
…Anche se da qualche parte, con qualche obiettivo concreto bisogna pure cominciare a lottare.
Butto lì un’ altra provocazione, da che ci sono.
Pur ritenendo difficile stilare una “graduatoria della gravità” dei molteplici attacchi in corso all’ integrità dell’ ambiente, credo che ci sia un’ attività umana che più di qualsiasi altra dia dannosa e che quindi più e prima di qualsiasi altra sarebbe da combattere (non ho dubbi sulla "maglia rosa" -o meglio la "maglia nera"- in questa classifica, pur avendone moltissimi sui "piazzati"), e che questa sia la pubblicità (per me incomparabilmente più dannosa all’ ambiente, per esempio della caccia, che forse per il suo aspetto “cruento” tanti movimenti di opposizione ha suscitato e suscita).
Infatti ruolo e funzione della pubblicità è proprio quello di promuovere illimitatamente il consumo di merci (beni e servizi, che tutti in varia misura inevitabilmente pesano negativamente sull’ ambiente) CHE SPONTANEAMENTE NON SI CONSUMEREBBERO, E DUNQUE NON SI PRODURREBBERO, inducendo bisogni inautentici e fittizi (e spesso decisamente dannosi perfino per il benessere e la salute dei singoli: basti pensare al tabacco). Ed è precisamente questo l’ aspetto più decisamente incompatibile con la realtà naturale oggettiva (e dunque decisamente irrazionalistico: mi si perdoni questo mio chiodo fisso) dello stato di cose presenti che va abolito (fra l’ altro) per salvaguardare la sopravvivenza umana.
Saluti a tutti.
Giulio
Non ho alcuna competenza professionale in materia, ragion per cui posso solo esprimere un bubbio a proposito di un’ affermazione di Michelangelo Bolognini (nell’ articolo “Inceneritori, propaganda e mercato assistito”, ove si leggono peraltro molte affermazioni che trovo perfettamente condivisibili ed esposte con esemplare chiarezza).
Vi si afferma fra l’ altro che una corretta raccolta differenziata dei rifiuti rende del tutto inutili gli inceneritori. Non credo che sia sostenibile che una raccolta differenziata, anche condotta nel migliore dei modi, consenta un riciclo, e tanto meno un riuso, integrale di tutti i rifiuti (lo impedisce il secondo principio della termodinamica, se anche non vogliamo considerare il controverso ma comunque a mio avviso geniale cosiddetto “terzo principio” di Georgescu Roegen).
Dunque in alternativa agli inceneritori credo che sarebbero per lo meno necessarie in una qualche ineliminabile misura le discariche (per quel minimo di rifiuti non altrimenti trattabile col riciclo o meglio il riuso previa raccolta differenziale, che le leggi naturali oggettivamente impongono). Non so questa affermazione sia condivisa dall' autore del testo (da qui il mio dubbio); credo di si. Comunque a mio modestissimo avviso é ineccepicile).
E’ inoltre molto difficile (specie per chi come me non ha competenze professionali in materia) considerare una sorta di “graduatoria della gravità” dei molteplici attacchi all’ ambiente portati dalla tecnoscienza al servizio delle classi dominanti, e dunque delle priorità da stabilire nella lotta per la sua salvaguardia.
In proposito ho comunque l’ impressione (del tutto epidermica e superficiale: potrebbe benissimo essere erratata) che Bolognini trenda a sottovalutare l’ inquinamento da CO2 e simili e l’ effetto serra che tende a provocare (anche se mi sembrano ineccepibili le sue critiche all’ accordo di Kyoto ed alla mercificazione dei cosiddetti ossimorici -in una logica autenticamente umana; perfettamente logici per il capitalismo della tecnoscienza- “diritti di inquinamento” -sic!- così come la sua denuncia dell’ “ecocapitalismo” -altro ossimoro!- e dei danni provocati dagli inceneritori o termovalorizzatori che eufemisticamente dir si voglia): non dimentichiamo il pericolo di fare la fine della rana di Alberto Signorini.
Un’ altra questione sulla quale vorrei molto sommessamente e pacatamente esporre i miei dubbi (ben sapendo di incontrare la disapprovazione di molto viandanti, che invito candidamente a ragionare per cercare di convincermi) è quella della lotta non contro l’ incenerimento dei rifiuti o le discariche, bensì contro certi singoli inceneritori o certe singole discariche (o certe singole linee della TAV, ecc., ecc.), che ad essere sincero devo dier non mi ha mai convinto.
Ripeto che trovo ineccepibile e anzi molto doveroso lottare contro l’ incenerimento dei rifiuti (e per quanto possibile contro l’ accumulo dei rifiuti in discariche) in generale e dovunque attuato, specie se accompagnato dalla disponibilità a pagare il prezzo necessario in termini di riduzione dei consumi inutili o comunque ingiustificati. Però lottare solo contro l’ inceneritore o la discarica “sottocasa”, la sciando per lo meno sottintesa la possibilità che la soluzione del problema possa essere semplicemente il suo spostamento da qualche altra parte il più lontano possibile (inevitabilmente presso popolazioni troppo poco forti economicamente o politicamente per poterlo evitare), magari non facendo nulla per limitare il consumismo (che produce rifiuti) nel proprio territorio, mi sembra un' espressione patente di subalternità all’ atteggiamento grettamente e meschinamente egoistico proprio dell’ ideologia dominante dell’ odierno capitalismo della tecnoscienza: un atteggiamento che credo sia da superare come priorità assoluta!).
…Anche se da qualche parte, con qualche obiettivo concreto bisogna pure cominciare a lottare.
Butto lì un’ altra provocazione, da che ci sono.
Pur ritenendo difficile stilare una “graduatoria della gravità” dei molteplici attacchi in corso all’ integrità dell’ ambiente, credo che ci sia un’ attività umana che più di qualsiasi altra dia dannosa e che quindi più e prima di qualsiasi altra sarebbe da combattere (non ho dubbi sulla "maglia rosa" -o meglio la "maglia nera"- in questa classifica, pur avendone moltissimi sui "piazzati"), e che questa sia la pubblicità (per me incomparabilmente più dannosa all’ ambiente, per esempio della caccia, che forse per il suo aspetto “cruento” tanti movimenti di opposizione ha suscitato e suscita).
Infatti ruolo e funzione della pubblicità è proprio quello di promuovere illimitatamente il consumo di merci (beni e servizi, che tutti in varia misura inevitabilmente pesano negativamente sull’ ambiente) CHE SPONTANEAMENTE NON SI CONSUMEREBBERO, E DUNQUE NON SI PRODURREBBERO, inducendo bisogni inautentici e fittizi (e spesso decisamente dannosi perfino per il benessere e la salute dei singoli: basti pensare al tabacco). Ed è precisamente questo l’ aspetto più decisamente incompatibile con la realtà naturale oggettiva (e dunque decisamente irrazionalistico: mi si perdoni questo mio chiodo fisso) dello stato di cose presenti che va abolito (fra l’ altro) per salvaguardare la sopravvivenza umana.
Saluti a tutti.
Giulio
Giulio Bonali- Messaggi : 25
Data di iscrizione : 08.03.09
cambiamenti climatici e cultura di massa
Qualche osservazione su alcune questioni sollevate nell'ultimo post di Giulio
(nel quale ve ne sono altre, come quella del cosiddetto effetto Nimby, cioè il particolarismo egoistico della protesta (che fu discusso a Chianciano 1), su cui dobbiamo ritornare).
Sulla questione delle "priorità" ambientali anch'io non ho alcuna "competenza professionale", ma l'opinione di Bolognini mi convince "a priori", cioè sulla base non di competenze specifiche ma, ancora una volta, del semplice uso della ragione.
La minaccia di importanti cambiamenti climatici è evidentemente un fatto corposo ed importante per la specie umana e per l'ambiente naturale, ma credo che per valutarlo razionalmente si debba partire da alcune evidenze:
- la prima, già richiamata da Bolognini e da Giulio, è che il cambiamento climatico costituisce di per sé anche una nuova opportunità affaristica, vedi i “diritti di inquinamento” ecc. Classificato come una delle tre global challenges insieme alla questione energetica e alla comunicazione (si veda ad esempio come ne parla l'EIT http://eit.europa.eu/about-eit/),
in suo nome si impiantano pagatissimi istituti o commissioni internazionali (vedi la IPCC http://www.ipcc.ch/), si costruiscono carriere politiche di personaggi che altro più non hanno da dire a nessuno, e molto altro.
- la seconda, ovviamente connessa alla prima, è che il cambiamento climatico è un "fatto" facilmente "mitizzabile" proprio per le sue dimensioni sovrumane e sfuggenti al tempo stesso, ed è entrato proprio in questo modo a far parte della cosiddetta "cultura di massa" ormai rigorosamente ostile al pensiero critico. Il clima è oggi una sorta di feticcio sul quale fingono di scontrarsi forze fintamente contrapposte e questo fatto produce l'effetto narcotizzante della ragione di cui abbiamo parlato altre volte.
Ad esempio, se un forte acquazzone provoca una frana uccidendo decine di persone, i media parleranno invariabilmente dell'imprevedibilità del clima che sta cambiando, delle "sfide globali" a cui dobbiamo rispondere con un crescente sviluppo scientifico e tecnologico, ecc,
ma difficilmente qualcuno si porrà la semplice domanda: come accade che il nostro progresso tecnologico ci permette di collegarci a Internet con il cellulare ma non è in grado di impedire che un acquazzone uccida tante persone? in che cosa consiste questo progresso? Ecco, io vedo la tragica metafora della "rana di Signorini" molto di più in questo non porsi domande che a priori, in un contesto non narcotizzato, scaturirebbero dal semplice buon senso, che non nel morire fisicamente surriscaldati dall'effetto serra.
A tutto questo si aggiunga il fatto che, all'estremo opposto del cambiamento climatico, sulla questione della nocività nessuno dice nulla, c'è il più assoluto silenzio, pur essendo le sporadiche notizie ed informazioni spaventosamente allarmanti. All'opposto del clima, si tratta
di un fatto molto concreto, su cui potrebbe svilupparsi uno scontro duro sul territorio, urbano e non, cioè laddove si gioca gran parte della vera partita del dominio affaristico-statuale sulla vita delle persone.
Ancora una volta, pur senza alcuna "competenza" specifica, il buon senso e la ragione suggeriscono che questo sia davvero un problema con cui dobbiamo fare i conti rapidamente.
(nel quale ve ne sono altre, come quella del cosiddetto effetto Nimby, cioè il particolarismo egoistico della protesta (che fu discusso a Chianciano 1), su cui dobbiamo ritornare).
Sulla questione delle "priorità" ambientali anch'io non ho alcuna "competenza professionale", ma l'opinione di Bolognini mi convince "a priori", cioè sulla base non di competenze specifiche ma, ancora una volta, del semplice uso della ragione.
La minaccia di importanti cambiamenti climatici è evidentemente un fatto corposo ed importante per la specie umana e per l'ambiente naturale, ma credo che per valutarlo razionalmente si debba partire da alcune evidenze:
- la prima, già richiamata da Bolognini e da Giulio, è che il cambiamento climatico costituisce di per sé anche una nuova opportunità affaristica, vedi i “diritti di inquinamento” ecc. Classificato come una delle tre global challenges insieme alla questione energetica e alla comunicazione (si veda ad esempio come ne parla l'EIT http://eit.europa.eu/about-eit/),
in suo nome si impiantano pagatissimi istituti o commissioni internazionali (vedi la IPCC http://www.ipcc.ch/), si costruiscono carriere politiche di personaggi che altro più non hanno da dire a nessuno, e molto altro.
- la seconda, ovviamente connessa alla prima, è che il cambiamento climatico è un "fatto" facilmente "mitizzabile" proprio per le sue dimensioni sovrumane e sfuggenti al tempo stesso, ed è entrato proprio in questo modo a far parte della cosiddetta "cultura di massa" ormai rigorosamente ostile al pensiero critico. Il clima è oggi una sorta di feticcio sul quale fingono di scontrarsi forze fintamente contrapposte e questo fatto produce l'effetto narcotizzante della ragione di cui abbiamo parlato altre volte.
Ad esempio, se un forte acquazzone provoca una frana uccidendo decine di persone, i media parleranno invariabilmente dell'imprevedibilità del clima che sta cambiando, delle "sfide globali" a cui dobbiamo rispondere con un crescente sviluppo scientifico e tecnologico, ecc,
ma difficilmente qualcuno si porrà la semplice domanda: come accade che il nostro progresso tecnologico ci permette di collegarci a Internet con il cellulare ma non è in grado di impedire che un acquazzone uccida tante persone? in che cosa consiste questo progresso? Ecco, io vedo la tragica metafora della "rana di Signorini" molto di più in questo non porsi domande che a priori, in un contesto non narcotizzato, scaturirebbero dal semplice buon senso, che non nel morire fisicamente surriscaldati dall'effetto serra.
A tutto questo si aggiunga il fatto che, all'estremo opposto del cambiamento climatico, sulla questione della nocività nessuno dice nulla, c'è il più assoluto silenzio, pur essendo le sporadiche notizie ed informazioni spaventosamente allarmanti. All'opposto del clima, si tratta
di un fatto molto concreto, su cui potrebbe svilupparsi uno scontro duro sul territorio, urbano e non, cioè laddove si gioca gran parte della vera partita del dominio affaristico-statuale sulla vita delle persone.
Ancora una volta, pur senza alcuna "competenza" specifica, il buon senso e la ragione suggeriscono che questo sia davvero un problema con cui dobbiamo fare i conti rapidamente.
stefanoisola- Messaggi : 44
Data di iscrizione : 04.03.09
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