Associazione per una Rivoluzione Democratica
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proposta di lavoro

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Giulio Bonali
stefanoisola
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Messaggio  stefanoisola Sab 14 Mar 2009, 11:21

Cari amici,

sulla base dei frammenti di discussione cha abbiamo avuto finora e
per cercare di convergere verso qualcosa di concreto
vi faccio la seguente proposta:

Partiamo dalla domanda "infantile":

il progresso tecnico è buono o cattivo per gli esseri umani?

e cerchiamo di rispondervi mettendo in campo tutto quello che riusciamo
a mettere in campo sia come conoscenze ed esperienze individuali sia
attingendo alla letteratura storica, filosofica, scientifica, religiosa, ecc.

Potremmo partire dal tentativo di andare oltre e più in profondità rispetto alle tre risposte tradizionali (vedi il testo di Castoriadis):

1) la tecnica è buona di per sé e il suo progresso è dunque portatore incondizionato di felicità;
2) il progresso tecnico sarebbe buono in sé ma è impiegato male dal sistema sociale esistente;
3) il progresso tecnico è un pericolo ed una minaccia per l'umanità.

Mi pare che partendo da questa domanda si possa procedere in molte direzioni diverse ed interessanti: da una critica della biologia moderna (macchinismo vs autonomia del vivente ecc) fino alle politiche messe recentemente in agenda dalla Commissione Europea su "conoscenza e innovazione", "cambiamenti climatici", ecc

Accanto alla discussione su questo forum, ciascuno di noi può cercare di articolare il discorso partendo dai suoi interessi e dalla sua esperienza, per arrivare così a dei contributi scritti che in seguito
possiamo cercare di sintetizzare in un unico documento oppure semplicemente mettere insieme come riflessione collettiva.

Personalmente come vi dicevo ho iniziato a scrivere qualcosa di abbastanza generale sulla tecnoscienza come "impostura storica", ma è ancora allo stato embrionale.

Sto anche stilando una bibliografia essenziale che posterò nei prossimi giorni
in modo che possa poi essere via via arricchita.

Un caro saluto a tutti aspettando commenti e proposte.

Stefano


Ultima modifica di stefanoisola il Lun 16 Mar 2009, 16:46 - modificato 1 volta.

stefanoisola

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Messaggio  Giulio Bonali Dom 15 Mar 2009, 22:03

Innanzitutto, avendo riletto con più calma il brano di Castoriadis, devo ammettere che è vero quanto rileva Stefano: nel precedente intervento me la sono presa tanto con quell’ autore per poi ripetere (neanche troppo brillantemente) cose già da lui chiaramente affermate; forse ho letto troppo in fretta quel brano (in un momento di “incazzatura”?), e forse è meglio che stampi le pagine del forum e le legga sulla carta e non scorrendole sullo schermo ove è più difficile averne una visione complessiva; comunque chiedo scusa a tutti per l’ inconveniente.

Provo ad esporre le mie convinzioni circa la questione, veramente fondamentale, posta da Stefano se il progresso tecnico sia buono o cattivo per l’ uomo.
Partirei da una definizione della tecnica, la quale secondo me è una sorta di sintesi o di “contaminazione” fra scienza pura (tesi?) ed economia (antitesi?).
Consideriamo la conoscenza scientifica per pura comodità di ragionamento astrattamente (essendo ben consapevoli che nella realtà dei fatti è inscindibile dalla tecnica).
Per me la scienza teorica pura (cosi intesa: astrattamente) è assolutamente positiva per l’ umanità: la considero un fine in sé, un aspetto importantissimo della cultura e della civiltà umana, un inestimabile arricchimento interiore, un elemento fondamentale del buon vivere; del tutto similmente -fra l’ altro- all’ arte, allo sport (praticato) o alla filosofia.
L’ economia invece non esiste a mio avviso in quanto tale, ma sono esistite ed esistono diversi tipi di economia (fra le altre l’ economia primitiva di raccolta-cacciagione, quella basata sul lavoro degli schiavi, quella feudale, quella capitalistica), e forse (auspicabilmente) ne esisteranno altre. Quella attualmente di gran lunga dominante nel mondo, e in particolare qui in occidente, è la capitalistica che (mi scuso per averlo già scritto nel forum) si basa, e oggettivamente per sua natura non può non basarsi, sulla concorrenza del tutto sregolata fra unità produttive reciprocamente indipendenti nella ricerca del massimo profitto (illimitato) a breve termine e ad ogni costo da conseguire attraverso la produzione, la distribuzione e il consumo di beni e servizi in quantità tendenzialmente crescenti, senza limite); conseguentemente, per lo meno a partire da un certo grado del suo sviluppo storico che mi pare sia stato già ampiamente superato, essa è del tutto incompatibile con la limitatezza delle risorse naturali di fatto disponibili e con la possibilità da parte dell’ ambiente di ripristinare le condizioni fisico-chimiche e biologiche necessarie alla sopravvivenza della specie umana, le quali vengono deteriorate variamente a seconda dei casi ma in una qualche misura comunque sempre inevitabilmente (come rileva anche Castoriadis), da tali attività economiche.
In quanto tale l’ economia “reale”, effettivamente oggi esistente ed operante, può ben essere considerata a mio parere come l' autentico “male assoluto”: la negazione totale e definitiva, la tendenziale irreparabile eliminazione dell’ umanità, e dunque la negazione reale di ogni possibile bene, se non direttamente per noi che ne facciamo parte attualmente, sicuramente per i nostri potenziali discendenti (ma indirettamente anche per noi stessi, che nel ricordo dei posteri abbiamo una delle fondamentali fonti di senso della nostra stessa esistenza, come splendidamente illustrato dal Foscolo nei Sepolcri).
Di conseguenza la tecnica, che di per sé può portare tanto benefici quanto danni all’ umanità (sono tecnica tanto i farmaci o le operazioni chirurgiche che possono guarire o salvare vite quanto le lavorazioni chimiche o i motori a scoppio che immettono nell’ atmosfera le sostanze chimiche che producono malattie e morte; tanto l’ illuminazione elettrica o il riscaldamento delle abitazioni che migliorano e prolungano la vita quanto le bombe che tante vite distruggono e mutilano) oggi, nel contesto economico nel quale è inevitabilmente inserita, può portare e tende di fatto a portare all’ umanità molti più danni gravi ed irreparabili che benefici. Non unicamente danni, poiché non è mera economia (capitalistica), e anche perché l’ economia capitalistica stessa, se ha nel valore di scambio il suo unico fine e motore, non può comunque mai prescindere del tutto per poterlo conseguire dal valore d’ uso dei beni e servizi che produce; e tuttavia il male che, accanto al bene, oggi il progresso della tecnica tende ad arrecare all’ uomo è il male assoluto rappresentato dalla sua irreparabile cancellazione dalla faccia della terra.
Per questo motivo mi sembra evidente che per lo meno a proposito della ricerca applicata (o ricerca tecnologica, o per lo meno scientifico-tecnologica), che all’ economia capitalistica offre gli strumenti indispensabili e tendenzialmente sempre più efficaci e potenti per realizzare la sua insopprimibile tendenza umanicida, non sia ammissibile delegarne le scelte fondamentali circa le priorità, l’ impiego delle risorse, ma anche circa la scelta dei campi da sottoporre ad indagine ai ricercatori di professione. Questi infatti, proprio per il carattere eminentemente quantitativo e “produttivistico fine a se stesso” del contesto economico nel quale operano e che li condiziona, generalmente sono dotati di competenze ultraspecialistiche molto avanzate e raffinate ma anche alquanto ristrette; inoltre costituiscono una corporazione ben inserita in posizione di privilegio nell’ esistente ordinamento sociale e caratterizzata nel suo operare per lo più da motivazioni alquanto anguste, quali la ricerca di fama, potere, ricchezza individuale o per piccoli gruppi, rispetto alle quali l’ ampliamento delle conoscenze e delle potenzialità umane ha spesso una funzione meramente strumentale (per lo meno oggi; una volta non era così, ma da dai tempi di Sabin che non volle brevettare il suo vaccino antipoliomielitico perché gli sembrava immorale arricchirsi al costo di non impedire -N.B.: non di infliggere!- gravi sofferenze a tanti bambini è passata molta acqua sotto i ponti). Ovviamente men che meno mi sembra accettabile che le scelte in proposito possano essere delegate ai detentori del potere economico che dalla logica distruttiva del capitalismo sono direttamente orientati nelle loro scelte.
Sia per un elementare senso di giustizia (questa tesi è forse opinabile, e potrebbe essere contestata dai portatori di una concezione etica individualistica, come quella propria dell’ ideologia dominante, per lo meno qui in occidente), sia per consentire la sopravvivenza dell’ umanità, per prevenire una sua estinzione “prematura” e “di sua propria mano” (e questa tesi a mio avviso è scientificamente dimostrata come vera, del tutto incontestabilmente adeguata alla realtà oggettiva dei fatti; anche se in tempi non quantificabili; e comunque anche il solo rischio e non necessariamente la certezza di un tale esito non sarebbe assolutamente tollerabile), è necessario che le scelte fondamentali che riguardano la ricerca scientifica applicata (o tecnologica) siano democraticamente soggette alla volontà generale delle popolazioni (di quelle attuali, ma con un occhio di riguardo anche per l’ umanità potenzialmente futura che non ha la possibilità di esprimersi ma che è direttamente coinvolta nelle conseguenze di queste scelte odierne).
Ma quanto é diverso il discorso da fare circa la ricerca teorica pura?
Credo solo in piccola parte. Infatti la ricerca teorica pura (considerata in quanto separata dalle sue applicazioni tecniche) è solo una mera astrazione, utile per comprendere la questione ma non coincidente con la realtà, dal momento che, fin dai tempi di Galileo e dell’impiego da parte sua (nonché del suo commercio, per autofinanziarsi, anche con chi ne faceva un uso militare) di cannocchiali e telescopi, molte importanti ricerche teoriche necessitano di complessi e costosi macchinari (tendenzialmente sempre più costosi).
Dunque non è ammissibile ignorare che la ricerca di nuove conoscenze, anche teoriche pure, è intrecciata indissolubilmente con la tecnica, e dunque con l’ economia e richiede l’ uso di ingenti risorse che potrebbero forse essere meglio impiegate in altri campi (se per esempio il prezzo per ottenere una buona soluzione ad un quesito teorico puro -che di per sé, astrattamente ritengo sia quanto di più nobile ed elevato possa desiderarsi- è quello di privare dei malati della possibilità di curarsi o delle popolazioni di quella di nutrirsi adeguatamente, allora di fatto, concretamente questo diventa un crimine contro l’ umanità; né più né meno).
Inoltre ogni nuova conquista teorica pura offre di fatto all’ economia nuove possibilità di applicazione tecnica che potrebbero in linea teorica essere tanto utili quanto dannose (più realisticamente: in maggiore o minor misura utili e complementarmente in minore o maggior misura dannose) per l’ umanità (presente e potenzialmente futura). E non è ammissibile ignorare tutto questo in generale per un semplice, elementare principio di giustizia; ed a maggior ragione non è possibile ignorarlo di fatto oggi, data l’ estrema potenza trasformatrice raggiunta dalla tecnica: per dirlo con una battuta un po’ terra-terra, una volta il coraggioso pioniere della ricerca rischiava di saltare in aria con il suo laboratorio, mentre oggi rischia di contribuire in modo decisivo (con i detentori del potere economico e politico) a far saltare in aria l’ umanità intera, e questo non è assolutamente ammissibile.
Dunque oggi, stante il livello raggiunto ormai da tempo dalla potenza trasformatrice della tecnica, le conseguenze delle scelte e delle decisioni dei ricercatori, e in particolare anche quelle relative alla ricerca teorica pura, (contrariamente e quelle della gran parte degli altri gruppi professionali attivi nell’ odierna produzione sociale) presentano la importantissima peculiarità di avere ripercussioni enormi, sia nel bene che nel male, sulle condizioni di vita di tutta l’ umanità e sulla possibilità della sua stessa sopravvivenza. Ne consegue che la questione della libertà della ricerca scientifica si pone oggi in termini qualitativamente diversi che ai tempi per esempio di Galileo, e cioè non più soltanto né principalmente come necessità di superare e vincere le inique, dannose ed antidemocratiche pretese di subordinarla a vecchi e superati dogmi filosofici o religiosi da parte del “potere costituito”; al contrario è del tutto evidente che oggi non è più minimamente ammissibile (se mai lo è stata in passato) una concezione della libertà della ricerca scientifica stessa che si pretenda come assolutamente incondizionata (mentre é di fatto pesantemente condizionata proprio dal potere costituito stesso).
Anche in fatto di ricerca teorica pura dunque l’ “ultima parola” sulle scelte operative (non puramente teoriche; e mi scuso per il bisticcio di parole) degli scienziati e sull’ uso delle risorse da essi utilizzate (su quali filoni di ricerca finanziare e in che misura; non sulle ipotesi teoriche da elaborare e sottoporre a verifica nei campi che si scelga di indagare) deve in linea di principio essere riservata democraticamente all’ umanità tutta, esattamente come in fatto di scienza applicata o tecnologia.
Non provo nemmeno ad affrontare al problema delle modalità e dei mezzi per giungere a una siffatta indispensabile democratizzazione delle scelte in campo scientifico, problema evidentemente di difficilissima soluzione, ancorché drammaticissimamente attuale. Accenno solo al fatto che una tale sacrosanta ed oggettivamente inderogabile esigenza di certo imporrebbe un allargamento ed un approfondimento quanto più possibile delle “competenze culturali generali” di tutta la popolazione; competenze e conoscenze scientifiche “di base” (concetto da intendersi come opposto a quello di “specialistiche”) ma anche filosofiche, storiche, “umanistiche in generale” necessarie per poter dare valutazioni per quanto possibile fondate sulle alternative che di volta in volta si pongono circa i filoni di ricerca da promuovere o accantonare (almeno momentaneamente) e sulla distribuzione delle risorse a ciò più adeguata.
E non a caso la distruzione “vandalica” della scuola pubblica, che ne è potenzialmente lo strumento principe, nonché la sempre maggiore banalizzazione e “stupidizzazione” della televisione che ne potrebbe costituire un validissimo ausilio sembrano essere fra le priorità del personale politico politicamente corretto sia “di destra” che ”di sinistra” al sevizio dello stato di cose presenti: d’ altra parte “da sempre” l’ ignoranza è al sevizio del potere.

(Mi accorgo rileggendole che queste considerazioni mi sono venute alquanto lunghe e talora ripetitive; mi dispiace e chiedo pazienza ai viandanti che cercheranno di leggerle; se risulteranno davvero troppo ridondanti e noiose cercherò di tenere conto per il futuro).

Saluti a tutti.

Giulio

P.S.: Con tutte queste scuse, all’ inizio e alla fine, mi dispiacerebbe davvero molto se facessi a qualcuno l’ impressione del seguace dello stupido e quanto mai ipocrita “buonismo” alla Veltroni.

Giulio Bonali

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Messaggio  Simone Lun 16 Mar 2009, 00:03

Macché, Giulio! Ogni abito linguistico è un abito mentale, e il tuo denota molta "urbanità" non piaggeria. Quella serve ad altri per altri scopi.

Simone

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Messaggio  Ennio Lun 16 Mar 2009, 01:52

Non sono sicuro di aver capito il senso con cui Giulio caraterrizza il male assoluto dell'economia capitalistica.

Tuttavia, e spero a beneficio di tutti, credo che sia utile porre alcuni elementi di criticità.

L'economia capitalistica non è certo l'unica economia che sfrutta le risorse del pianeta senza tenere in considerazione le conseguenze dello sfruttamento per le generazioni successive o le specie contemporanee. Questa forma di ingiustizia non è unicamente legata al capitalismo ma, credo, è legata ad ogni economia che basi le sue scelte esclusivamante sugli interessi degli essere umani che vivono in un dato periodo.

Nel passato remoto (diciamo nel periodo compreso tra da 10000 anni fa a 5000 anni fa) si sono estinte numerose specie perchè nella nicchia ecologica in cui si trovavano l'uomo è entrato prepotentemente e, senza alcuno scrupolo, ha razziato le risorse finchè non ha eliminato la fonte stessa del proprio sostentamento.

L'agricoltura (forse la tecnica per antonomasia di dominio della natura) ha avuto un esito per certi versi paradossale: da un lato essa ha ridotto lo sfruttamento delle risorse biologiche esauribili necessarie per il sostentamento di un singolo essere umano, ma dall'altro ha reso possibile la prima accumulazione e con questa è venuta la possibilità di difendersi dalla natura, con la conseguenza di incrementare poderosamente la popolazione umana. QUESTO incremento, e non la tecnica, ha poi avuto l'effetto di incidere negativamente sulle risorse naturali.

Porto alla vostra attenzione queste riflessioni perchè credo che bisogna stare molto attenti a non perdere di vista un fatto fondamentale: la sopravvivenza e lo sviluppo dell'umanità sono stati possibili grazie allo sfruttamento delle risorse messe a dispozisione dalla natura, spesso in competizione con altri sfruttatori.

L'unica possibile valutazione negativa di un tale sfruttamento può fondarsi sul danno che esso comporta all'umanità stessa. Una valutazione negativa dello sfruttamento delle risorse naturali che si fondasse sul danno nei confronti della natura sarebbe pericolosa poichè ci spingerebbe a considerare l'umanità come un virus indesiderato e quindi, per coerenza, a sperare che qualcosa la elimini.

Ennio

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Messaggio  stefanoisola Lun 16 Mar 2009, 13:48

Un breve commento all'ultimo post di Giulio:

Sono anch'io convinto che il pensiero scientifico, insieme a quello filosofico, sia un valore in sé, sia anzi la più preziosa eredità che ci ha lasciato il mondo antico.
E ciò nel senso che entrambi annunciano e dispongono con modalità e forme diverse una "sapienza": quella di pensare e di riconoscere una razionalità regolatrice delle cose della realtà. Proprio questo riconoscimento riempie di senso l'uso della ragione e dell'argomentazione umana.

Ma sono altrettanto convinto che l'attuale "sistema di produzione" delle conoscenze, scientifiche e non, sia in larga misura insensato, perché cieco e muto proprio nei confronti di quel riconoscimento di una razionalità regolatrice del mondo. La manifestazione più corposa ed evidente di tale insensatezza ed insipienza consiste proprio nel fenomeno della specializzazione parcellizzante a cui abbiamo già accennato e che Simone Weil ha messo a fuoco con notevolissima lucidità anticipatrice nel testo che ho postato su questo forum.

Proprio per questo mi pare che la possibilità auspicata da Giulio di una "democratizzazione delle scelte in campo scientifico" non sia neppure pensabile senza il concreto avvio di quel "compito impressionante [...] che implica una revisione critica della scienza intera" auspicato dalla Weil.

Tutto questo non per alimentare lo scoraggiamento, ma al contrario per cercare di procedere più in profondità, fino a scoprire un "bandolo dalla matassa" da cui ripartire per indicare azioni concrete.

Saluti a tutti, Stefano

stefanoisola

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Messaggio  Giulio Bonali Lun 16 Mar 2009, 21:37

Cerco di chiarire il senso di quanto precedentemente scritto, rispondendo alle giuste osservazioni di Ennio.

E’ senz’ altro verissimo che non solo l’ economia capitalistica sfrutta le risorse naturali ignorando gli effetti dannosi che provoca sull’ ambiente lasciato in eredità alle generazioni successive.
Anzi, nel caso delle economie che hanno preceduto il capitalismo questa ignoranza era certamente maggiore. Tuttavia a causa del limitato sviluppo delle forze produttive (come si era soliti dire una volta), le quali sono in qualche misura inevitabilmente anche distruttive, esse potevano provocare danni anche ingenti ma comunque locali e non generalizzati all’ intera biosfera, e almeno in parte riparabili.
Invece il capitalismo odierno, a proposito del quale non si può certo parlare di minore conoscenza soggettiva dei termini della questione, che anzi in esso è molto più avanzata e diffusa che in qualsiasi altra epoca storica precedente, a causa della logica oggettiva del suo funzionamento, degli interessi in esso dominanti ed anche (a differenza dei modi di produzione che l’ hanno preceduto) della potenza ed efficacia raggiunte dai mezzi tecnici di cui dispone è in grado di arrecare e tende effettivamente ad arrecare all’ ambiente naturale e conseguentemente all’ umanità danni generalizzati (globali, come è di moda dire) ed irreparabili.
Mentre i precedenti modi di produzione possono essere considerati per l' umanità per diversi aspetti e conseguenze del loro funzionamento sia bene relativo chee male relativo, credo che quello oggi dominante possa e debba essere considerato come “il male assoluto” (oltre che fonte un bene relativo) in quanto oggettivamente tendente all’ umanicidio.

Verissimo anche che pure in precedenza l’ uomo ha causato l’ estinzione di molte specie viventi. Ma non c’ è confronto, o c’ è un vero e proprio salto di qualità (negativo) fra le eliminazioni di specie provocate dai precedenti modi di produzione e quella che sta producendo presentemente il capitalismo (e questo è un pessimo sintomo per la salute dell’ uomo, non solo dell’ ambiente).

L’ agricoltura è certamente una delle attività umane più utili e più dannose. Essa è nata e si è sviluppata come applicazione cosciente e finalizzata al lavoro umano (cioè alla relativa trasformazione-dominio della natura) di conoscenze oggettive, di tipo scientifico (inizialmente molto rudimentali e per così dire ampiamente “contaminate” da elementi superficialmente empirici, irrazionalistici, superstiziosi, poi via via sempre più coerentemente e approfonditamente scientifiche), cioè come una “tecnica” in senso letterale (forse la tecnica per antonomasia, come afferma Ennio).
E’ la tecnica (soprattutto agricola) che ha portato alla crescita “artificiale” della popolazione umana: pur in un meccanismo complesso e caratterizzato da retroazioni positive ed elementi di reciprocità, la tecnica è stata sostanzialmente la causa, la crescita demografica l’ effetto. (avente a sua volta ulteriori effetti tendenzialmente devastanti).
Ma anche l’ agricoltura, come ogni altra tecnica, nella sua fase capitalistica presenta un’ impatto ambientale molto più esteso, profondo, difficilmente correggibile che in qualsiasi altra sua forma precedente.

Condivido pienamente anche l’ ultima considerazione di Ennio circa la necessità di porre l’ uomo (e non la natura in sé e per sé) al centro del nostro interesse: la natura come mezzo, l’ umanità come fine (credo che su questo probabilmente altri viandanti porranno obiezioni; non io).
Ma l’ uomo non può sopravvivere e progredire senza rispettare determinati limiti e vincoli oggettivi che la natura pone alla sua proliferazione e alle sue attività.
Non paragonerei quindi l’ umanità ad un virus, bensì ad un organo o a un tessuto rispetto alla natura considerata come un organismo pluricellulare (magari all’ organo più “nobile” dei vertebrati, il cervello): esso non può crescere e metabolizzare le risorse materiali ed energetiche dell’ organismo e riversarvi i suoi cataboliti illimitatamente, senza rispettare un armonico equilibrio complessivo con gli altri organi e tessuti, altrimenti si trasforma in un tumore, destinato ad uccidere l’ organismo di cui è parte e al di fuori del quale non può vivere, e dunque ad uccidere anche se stesso.
La differenza principale è che con ogni probabilità la vita, anche se gravemente mutilata dalla crescita “cancerosa” dell’ uomo, potrà sopravvivergli e continuare a svilupparsi per vie imprevedibili (già in passato è sopravvissuta ad altre estinzioni di massa, dovute a cause naturali); invero l’ umanità può comportarsi o come un tessuto sano oppure come un tumore benigno, che distrugge parte dell’ organismo "natura vivente" compreso se stesso, ma probabilmente non come un tumore maligno; o forse per rendere la metafora più calzante bisognerebbe paragonarla (nel caso non intervengano mutamenti radicali nel suo attuale modo di produrre-consumare) ad un tumore maligno che però la biosfera riuscirà probabilmente ad amputare chirurgicamente da sé in maniera corretta (ontologicamente radicale, come si dice tecnicamente) salvando la propria vita anche se al prezzo di una grave mutilazione.

Saluti!

Giulio Bonali

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Messaggio  Silvana Mar 24 Mar 2009, 02:55

cari viandanti, solo oggi rientro nel forum e sono non poco frastornata da tutto quello che ho letto.
mi sembra però essenziale a questo punto cercare di circoscrivere il nostro compito come gruppo, per non cadere anche noi in un discorso onnipotente.
mi sembra - correggetemi se sbaglio- che ci sia un accordo unanime almeno su due punti:
1) che la ricerca pura, sorretta dalla sola passione per la conoscenza, se mai è esistita, non è comunque più pensabile all'interno del sistema attuale
2) che la tecnica, come ogni azione umana, di per sè volta a una trasformazione se pur limitata del mondo circostante, ha un volto ambivalente, per l'effetto immediato voluto, e per gli effetti non prevedibili a medio e lungo termine
scusate la banalità, ma mi sembra utile cercare di semplificare al massimo il discorso.
dunque, quale compito ci prefiggiamo? se, come credo, è quello di demistificare la propaganda corrente sulle magnifiche sorti e progressive della tecnoscienza e far riflettere i nostri concittadini sulla deriva tragica cui tutti rischiamo di contribuire se non ricominciamo a usare un pensiero critico nei confronti di questa propaganda, partire dai testi di Castoriadis e di Simone Weil mi sembra un ottimo inizio.
potrebbe essere utile, per non rischiare di cadere in discussioni teoriche, cercare di declinarli in ambiti specifici? secondo le competenze di ciascuno. per esempio noi medici potremmo cominciare una riflessione sulle attuali pratiche basate sull'EBM e sulla cosiddetta prevenzione, altri su altre tematiche, per tentare di circoscrivere ambiti di discussione che possano portare alla stesura di documenti "esportabili" al grande pubblico, altrimenti rischiamo di raccontarcela solo tra noi.
alto aspetto: la bibliografia proposta è davvero ricca e interessante, ma non esauribile da ciscuno: perchè non ce la dividiamo? sarebbe più utile che rischiare di leggere tutti gli stessi testi, e trascurarne altri
so di essere molto terre à terre rispetto ai discorsi intrecciati, ma non credo che possiamo permetterci troppi voli sul generale, se vogliamo fare qualcosa di fruibile. sarà perchè sono l'unica donna del gruppo....
a parte rispondo a roberto
ciao a tutti! silvana

Silvana

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proposta di lavoro Empty Lucio Russo: Dove sta andando la scienza ?

Messaggio  stefanoisola Gio 26 Mar 2009, 17:20

Cari tutti,

vorrei riprendere il filo del discorso già iniziato partendo
dall'osservazione di Silvana secondo cui ci sarebbe
un accordo unanime almeno su due punti:

Silvana ha scritto:
1) che la ricerca pura, sorretta dalla sola passione per la conoscenza, se mai è esistita, non è comunque più pensabile all'interno del sistema attuale
2) che la tecnica, come ogni azione umana, di per sè volta a una trasformazione se pur limitata del mondo circostante, ha un volto ambivalente, per l'effetto immediato voluto, e per gli effetti non prevedibili a medio e lungo termine

Secondo me l'accordo c'è ma poggia ancora su una base troppo scivolosa
e confusa. Come ho già detto all'inizio del percorso è mia opinione che il punto che abbiamo il compito di sviscerare davvero sia il secondo.
Credo infatti che dobbiamo soprattutto cercare di mettere a fuoco in quale senso preciso, razionale e non banale si può affermare che: la tecnica, nel suo stato attuale, ha cessato di essere strumento di emancipazione dell’umanità, e a partire da questo indicare per quanto possibile strategie concrete di difesa dell'autonomia della vita e di riappropriazione delle scienze, delle arti e dei mestieri.

D'altra parte, anche sulla scorta delle dispute recenti, mi pare che discutere
seriamente del primo punto sollevato da Silvana possa essere un passaggio fortemente chiarificatore.

A questo scopo incollo qui sotto il testo di Lucio Russo che ho messo nella lista dei materiali per il lavoro ma che è difficilmente reperibile perché apparso di una rivista con limitata diffusione.
Come abbiamo fatto con i testi della Weil e di Castoriadis,
potremmo andare avanti ancora per un po' con letture comuni e relative discussioni di testi abbastanza brevi per poi, se lo riteniamo opportuno, procedere con una qualche forma di divisione dei compiti rispetto a materiale più corposo, come suggerito da Silvana.

Sono costretto a spezzare il testo in quattro parti perché supera il limite massimo consentito (le restanti nei post successivi).

Cari saluti a tutti, Stefano



Cosa sta accadendo alla scienza? (Lucio Russo, in Koiné, Scienza, cultura, filosofia, CRT 2002)

1.
Debbo dire innanzitutto che condivido l’idea di Marino Badiale che la scienza, come più in generale la cultura, attraversi una grave crisi (e che sia importante discuterne in modo non “accademico” , come è possibile fare su una rivista come Koiné).
D’altra parte si tratta di un fenomeno né imprevedibile né nuovo. Non si tratta di un fenomeno imprevedibile perché tutte le crescite esponenziali incontrano ovviamente prima o poi un limite naturale ed è ben noto, come Badiale ricorda, che la scienza, secondo vari indici quantitativi (ad esempio il numero dei lavori scientifici pubblicati) ha continuato a crescere esponenzialmente da ormai circa tre secoli.
La scienza, anche nel senso ristretto del termine che discuterò tra poco, esiste però da molto più tempo, per la precisione da più di ventitré secoli, durante i quali i periodi di crescita si sono alternati a “catastrofi”, stagnazioni e riprese parziali. Far coincidere la storia della scienza con l’ultimo periodo di crescita esponenziale (come in genere si fa, almeno implicitamente, restringendo le proprie considerazioni storiche a questo periodo) accredita l’idea che lo sviluppo esponenziale sia tipico della natura del sapere scientifico (come di quella del PIL), ma non corrisponde alla verità storica.
Per cercare di capire la natura della crisi attuale mi sembra necessario precisare innanzitutto l’oggetto della discussione. Cosa intendiamo con scienza?

2. Cos’è la scienza? La scienza esatta.
Oggi il termine “scienza” è usato soprattutto al plurale, per indicare più o meno qualsiasi argomento, dalle “scienze della comunicazione” alle “scienze turistiche”, dalle “scienze infermieristiche” alle “scienze occulte”. Sopravvive però la memoria di un uso più ristretto (e quindi più utile) del termine, conservato ad esempio nell’uso del derivato “scienziato”, che in genere non viene esteso ai cultori di tutte le “scienze” appena ricordate. Tra le scienze nel senso ristretto del termine sono distinguibili due gruppi. Il primo, che in mancanza di un termine migliore chiamerò “scienza esatta”, ha al suo centro la matematica e la fisica, mentre le più tipiche rappresentanti del secondo gruppo (che chiamerò “scienze empiriche”) sono le discipline biologiche. Si tratta di due realtà molto diverse, che oggi non stanno attraversando lo stesso tipo di crisi.
Una prima differenza che si può notare è nei nomi: mentre le scienze empiriche hanno ciascuna un nome derivato dal proprio oggetto di studio (la zoologia studia gli animali, la geologia la terra, l’istologia i tessuti, e così via) le discipline della scienza esatta hanno quasi sempre nomi dall’etimologia estremamente generica: ad esempio la “matematica” riguarda “ciò che si studia” e la “fisica” si occupa della “natura”, ossia di tutto. Anche quando il nome indica un oggetto specifico, non si tratta mai del vero oggetto della disciplina: la “topologia” studia “i luoghi” più o meno allo stesso modo in cui l’elettrologia studia l’ambra. I reali oggetti di studio sono le “proprietà topologiche” e i “fenomeni elettrici” , non sono cioè definibili in modo non tautologico.
La differenza nell’origine dei nomi non è casuale, ma è dovuta alla circostanza che nel caso delle discipline empiriche si sceglie a priori un oggetto di studio, mentre la “scienza esatta” non è caratterizzata dall’oggetto, ma dal metodo. Gli oggetti realmente studiati sono semplicemente tutti quelli che vengono via via raggiunti con il metodo scelto.
Le teorie della scienza esatta sono ipotetico-deduttive. In altre parole ogni teoria è costituita da assunzioni, rese, per quanto possibile, esplicite, e dalle loro conseguenze logiche. Il metodo ipotetico-deduttivo non è un metodo utile per fare scienza, poiché non fornisce né regole sulla scelta delle assunzioni né criteri per scegliere in che direzione sviluppare le teorie, né come farlo. Esso rende però possibile il controllo della validità delle teorie già sviluppate e la soluzione di esercizi formulati al loro interno.
Le teorie della scienza esatta hanno fornito “modelli” del mondo reale, anche se spesso gli scienziati li hanno costruiti ritenendo di descrivere direttamente la natura. Tornerò su questo punto. Poiché il saggio di Acerbi riguarda il ruolo svolto dai modelli nella scienza ellenistica, sono esentato dal mostrare che la caratteristica che ho appena accennato è apparsa nella “scienza esatta” sin dal suo nascere.

3. Scienza esatta e tecnologia
La scienza esatta ha permesso di affiancare alle tecnologie empiriche (che sono antiche quanto l’uomo) la tecnologia scientifica, che usa i modelli forniti dalle teorie scientifiche come strumenti utili per la progettazione di tecnologia nuova. Credo che il suo rapporto con la tecnologia scientifica sia una caratteristica essenziale della scienza esatta, strettamente connessa alla natura ipotetico-deduttiva delle sue teorie (anche se si tratta di una connessione spesso trascurata). La coerenza logica può, infatti, essere interrotta quando si discute di oggetti reali (e quindi, in linea di principio, si può verificare la fondatezza di ogni affermazione indipendentemente dal suo legame con le altre), ma non ammette deroghe se si intende discutere coerentemente le proprietà di oggetti possibili, ma non esistenti, come è necessario fare quando si intende progettare tecnologie nuove. Le teorie della scienza esatta, permettendo di ricavare dalle proprie premesse affermazioni su oggetti non esistenti, forniscono una base essenziale alla progettazione tecnologica.
Lo stretto legame con la tecnologia è più chiaro nella scienza antica. Alcuni libri degli “Elementi” di Euclide possono essere considerati un manuale sulle possibili costruzioni con riga e compasso, realizzabili montando insieme le operazioni elementari descritte dai primi postulati. Discipline come l’antica “meccanica” o la “catottrica” sono esplicitamente le scienze, rispettivamente, delle macchine e degli specchi. Si tratta tuttavia di “scienze”, in quanto anch’esse permettono di dedurre da pochi principi molte affermazioni, valide per un numero teoricamente illimitato di macchine o di specchi. In epoca moderna, anche se gli scienziati impegnati nell’obiettivo di elaborare teorie globali (come la fisica cartesiana o le attuali “teorie del tutto”) possono esserne stati poco consapevoli, il rapporto tra scienza esatta e tecnologia è rimasto essenziale, ma in molti casi è divenuto meno diretto. Capita spesso che le teorie che si crede descrivano il “mondo” in realtà abbiano per proprio oggetto soprattutto la tecnologia costruita con le teorie stesse. Lo slittamento può essere occultato dalla circostanza che il mondo viene concepito come una proiezione della tecnologia che si ha a disposizione. In età moderna, grazie al meccanicismo, l’antica e umile “scienza delle macchine” fu concepita sempre più come una teoria globale del mondo. Il “mondo” studiato dalla meccanica era però esso stesso concepito come un gigantesco meccanismo, spesso paragonato ad un orologio.
All’epoca di Newton i soli fenomeni elettrici noti erano le esperienze sui corpi elettrizzati per strofinio e i fulmini. Nei due secoli successivi le teorie elettromagnetiche si svilupparono enormemente. All’inizio del XX secolo i fulmini non erano però capiti meglio che all’epoca di Newton: ad esempio non esisteva una teoria in grado di spiegarne la forma. L’elettromagnetismo era concepito come una teoria che spiegava gran parte della “natura”, ma il suo reale contenuto non era costituito dalla descrizione di fenomeni naturali spontanei, ma dalle basi teoriche di una complessa tecnologia che aveva cambiato la vita dell’umanità. Oggi ci stiamo convincendo che gli aspetti essenziali della natura, inclusa quella vivente, consistano nell’elaborazione, codificazione e trasmissione di informazione. Continuiamo, evidentemente, a descrivere l’universo usando i concetti dell’ultima generazione della nostra tecnologia.
Naturalmente si tratta di descrizioni efficaci: il mondo, in qualche senso, è realmente un meccanismo, così come è realmente un fenomeno elettromagnetico e un processo informatico. L’introduzione di nuove tecnologie, fornendo nuovi strumenti per interagire con la natura, fornisce allo stesso tempo strumenti essenziali di conoscenza.

4. Scienze biologiche (e altre scienze empiriche)
Le scienze biologiche hanno avuto tradizionalmente un rapporto solo indiretto con il metodo ipotetico deduttivo e con la tecnologia scientifica. Esse hanno, infatti, tratto dalla scienza esatta strumenti concettuali (occasionalmente) e tecnologici (sistematicamente), ma non hanno mai usato il metodo ipotetico deduttivo per ottenere i propri risultati, né sono state usate per progettare tecnologia (alla situazione radicalmente nuova creata dalle biotecnologie accennerò più avanti).
Il motivo è facilmente comprensibile: chi vuole capire, ad esempio, la fisiologia dell’udito dei mammiferi o i meccanismi del differenziamento cellulare deve certamente argomentare razionalmente, ma non può individuare poche premesse da cui dedurre univocamente la soluzione di tutti i suoi problemi. Il cultore della scienza esatta può infatti usare questo metodo solo se e in quanto l’oggetto dei propri studi è o una
costruzione intellettuale formata appunto dalle conseguenze delle premesse scelte oppure l’insieme degli oggetti tecnologici virtualmente realizzabili sulla base di poche assunzioni. Il biologo studia invece in ogni caso oggetti a lui preesistenti, prodotti da una lunga evoluzione, dovuta ad un gran numero di cause, che ha condotto anche a risultati del tutto diversi e avrebbe potuto produrne molti altri. Si tratta di una situazione per molti aspetti analoga a quella dello storico.

--- continua ---


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Messaggio  stefanoisola Gio 26 Mar 2009, 17:23

5. Il problema della verità.
Le teorie della scienza esatta sono “vere”? L’idea che esse rispecchino fedelmente la realtà del mondo esterno è difficilmente sostenibile, anche perché tutte le teorie scientifiche riguardanti il mondo esterno finora formulate sono state contraddette da teorie scientifiche successive. La verità assoluta della scienza può quindi essere sostenuta solo da chi pensa che la storia della scienza sia costituita, in ciascun settore, da una serie di errori seguiti da una verità definitiva che pone fine alla ricerca scientifica. Si tratta più o meno dell’idea che aveva, tra gli altri, Newton, e che ai nostri tempi è stata sostenuta da Horgan in un libro di successo, certamente superficiale, ma a mio parere interessante proprio per il suo candore (The end of science, 1996; vi si sostiene che essendo ormai note tutte le verità, il compito della scienza si è esaurito). Spesso la Verità definitiva è concepita come caratteristica di una teoria non ancora esistente, ma futura ed imminente.
In realtà non è affatto ovvio che il concetto di “verità” possa estendersi senza sostanziali modifiche dal caso delle frasi del linguaggio ordinario, riguardanti circostanze della vita quotidiana (in riferimento alle quali è nato, in opposizione a “falsità”) alle affermazioni della scienza.
Cosa significa, ad esempio, chiedersi se è vero che le onde elettromagnetiche soddisfano le equazioni di Maxwell? Se per “onde elettromagnetiche” intendiamo opportune soluzioni di tali equazioni, la risposta è ovviamente positiva ma tautologica. Con “onde elettromagnetiche” possiamo intendere ciò che provoca le sensazioni visive, è ricevuto dalle antenne televisive, agisce nei forni a microonde, e così via elencando, ma si può obiettare che, poiché qualsiasi elenco di fenomeni sarà necessariamente incompleto, non è possibile fornire una definizione di “onda elettromagnetica” che prescinda dalla teoria di Maxwell (o da qualche altra teoria). Possiamo riformulare la domanda chiedendoci se le equazioni di Maxwell permettono di descrivere una serie di oggetti naturali, che includono, ad esempio, la luce visibile e i segnali captati dai radiotelescopi e dalle antenne televisive. In questo caso la risposta deve essere parzialmente affermativa, in quanto la teoria, pur permettendo di descrivere questi e molti altri fenomeni, non fornisce una descrizione veramente completa di nessuno di essi: ad esempio ignora l’esistenza dei fotoni. La situazione è analoga a quella di una carta geografica. Se qualcuno ci chiedesse se la carta della Cina contenuta nell’Enciclopedia Britannica è vera o falsa non potremmo scegliere tra le due possibilità: dovremmo rispondergli che essa riproduce alcune caratteristiche della Cina con una certa accuratezza e con determinati scopi. Mentre però nessuno chiede se la carta della Cina è “vera”, questa domanda è spesso posta in riferimento alle teorie scientifiche.
Le considerazioni appena fatte, come quelle precedenti sui modelli, possono apparire tipiche della posizione “strumentalista”. Il termine “strumentalismo” è però usato in diversi significati. Se per “strumentalismo” si intende la tesi che non esista un criterio di validità delle teorie scientifiche che sia indipendente dalla loro coerenza interna e dalla loro potenziale applicabilità, mi sembra che l’unica possibilità di negarlo richieda l’improbabile individuazione di un tale criterio. Per “strumentalismo” si intende invece spesso la posizione di chi accetta qualsiasi costruzione intellettuale, anche incoerente, purché “funzioni”, purché cioè permetta di ottenere risultati pratici.
Nella seconda metà del XX secolo tra i filosofi e storici della scienza (molto meno tra gli scienziati!) si sono diffuse forme di totale relativismo. Si è cioè diffusa la convinzione che l’affermarsi delle teorie scientifiche non sia determinato dalla loro coerenza e capacità di spiegare i fenomeni, ma dipenda dal consenso della comunità scientifica determinato da una serie di complessi fattori culturali e sociali. La scienza è stata così tendenzialmente inclusa tra gli argomenti di pertinenza dei sociologi.
Nella metafora cartografica, il totale relativismo può essere descritto come la posizione di chi, avendo capito che i metodi cartografici, pur essendo basati su teorie geometriche e accurate misure delle coordinate delle località rappresentate, non sono univocamente determinati dalla geografia, ma dipendono anche da scelte determinate dalle tradizioni culturali, ne conclude che non vi sia differenza tra la cartografia scientifica e le rappresentazioni qualitative e mitiche della realtà geografica.

6. Divulgazione scientifica e imposture intellettuali
Credo che le considerazioni precedenti aiutino a capire perché, mentre non è difficile trovare opere di divulgazione che informano anche su risultati recenti di molti argomenti delle scienze empiriche in modo almeno approssimativamente corretto, lo stesso risultato sia quasi impossibile nel campo della scienza esatta. In questo secondo caso il divulgatore non può illustrare argomenti interni ai modelli scientifici, non solo perché spesso non è consapevole della differenza tra modello e realtà modellata, ma soprattutto perché il pubblico non lo seguirebbe, in quanto il discorso “teorico”, per sua natura, non può essere tradotto nel linguaggio ordinario senza essere snaturato. In uno dei best-seller della divulgazione scientifica, che può essere considerato un classico nel suo genere, dovuto peraltro ad un vero “scienziato” (Stephen Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri) è scritto:

Le teorie delle corde presentano un problema: esse sembrano consistenti solo se lo spazio-tempo ha dieci o venti dimensioni, in luogo delle solite quattro! Ovviamente dimensioni extra dello spazio-tempo sono un luogo comune della fantascienza, dove in effetti esse sono quasi una necessità [per rendere possibili viaggi intergalattici attraverso “scorciatoie” spazio-temporali]. …
Perché non percepiamo tutte queste dimensioni extra, se esistono veramente? … Il suggerimento è che le altre dimensioni siano arrotolate in uno spazio di dimensioni piccolissime, dell’ordine di un pentilione di centimetro. Si tratta di uno spazio così piccolo che non abbiamo assolutamente alcuna possibilità di percepirlo.


La teoria delle stringhe (o delle corde) è stata elaborata come modello teorico di una complessa fenomenologia, esplorata dai fisici con strumenti tecnologici raffinati. Il divulgatore non può spiegare né la struttura interna della teoria (per le insormontabili difficoltà matematiche) né la fenomenologia di cui costituisce il modello. Egli può solo accennare a singoli elementi della teoria, come le dimensioni extra. Questi elementi, avulsi dalla teoria in cui svolgono il proprio ruolo, vengono presentati come oggetti concreti ma impercepibili. L’unica “fenomenologia” che può essere invocata per aiutare il lettore è quella offerta dalla fantascienza. Si trasmette in questo modo l’esatto opposto dell’antica idea che le teorie servissero a “salvare i fenomeni”. Il profano deve imparare che ciò che esiste veramente può essere appreso solo attraverso la mediazione di iniziati che hanno accesso all’impercepibile.
Spesso al grande pubblico, che non può entrare nel merito delle teorie scientifiche, arrivano idee suggerite semplicemente dalla terminologia usata. Un tempo si trattava soprattutto di fraintendimernti ingenui (ad esempio di chi immaginava che Einstein avesse sostenuto che “tutto è relativo”). Più recentemente si sono diffuse sia le “imposture intellettuali” (illustrate nell’omonimo libro di Bricmont e Sokal) create da non-scienziati usando un linguaggio pseudo-scientifico per intimidire i colleghi, sia vere teorie scientifiche formulate dai loro autori con una terminologia adatta a prepararne usi impropri ed ideologici.

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Messaggio  stefanoisola Gio 26 Mar 2009, 17:25

7. La crisi attuale
Badiale suggerisce che la colpa della crisi attuale possa essere del capitalismo. Capisco e condivido l’angoscia di vivere in una società che misura il valore di qualsiasi cosa, conoscenza compresa, in termini del danaro che se ne può ricavare. Non mi sembra però che la categoria “capitalismo” sia utile per interpretare il fenomeno di cui stiamo parlando. I tre secoli in cui abbiamo avuto lo sviluppo esponenziale della scienza che oggi è entrato in crisi sono stati i secoli in cui il capitalismo è sorto e si è sviluppato. Dovremmo concluderne che la scienza è stata per tre secoli un merito del capitalismo prima che la sua crisi divenisse una sua colpa? D’altra parte due catastrofi culturali che abbiamo conosciuto in tempi recenti sono state la rivoluzione culturale cinese (che in Cina ha interrotto ogni attività di produzione culturale e di didattica superiore per decenni) e il crollo della scuola scientifica russa. A chi dobbiamo darne la colpa?
Abbiamo visto che la scienza esatta ha sempre avuto un rapporto essenziale con la tecnologia. Si è trattato però di un rapporto complesso e indiretto. Lo scienziato, in quanto tale, non produceva tecnologia reale, ma esplorava possibilità e limiti di tecnologie virtuali. Debbo fare una parentesi. Può sembrare che le mie affermazioni su quella che ho chiamato “scienza esatta” riguardino la fisica e non la matematica. In realtà la matematica antica non conosceva l’attuale differenza tra le due discipline: non solo Archimede, ma anche Euclide, in geometria come in ottica, era impegnato nella costruzione di modelli di fenomeni reali. Lo stesso si può dire, in epoca moderna, di Fourier o di Poincaré, e oggi dei fisici matematici o dei probabilisti. In altri casi i matematici moderni non hanno avuto un rapporto diretto con la modellizzazione dei fenomeni, ma solo perché hanno studiato caratteristiche comuni a molti modelli; l’esistenza di un filo continuo che lega saldamente, anche se indirettamente, i risultati matematici al mondo reale è dimostrata dalla funzione essenziale svolta dalle applicazioni fisiche nello stimolare anche teorie apparentemente astratte della matematica del XX secolo.
La catena che può essere descritta approssimativamente dagli anelli matematica – fisica – tecnologia – economia ha funzionato bene per più di due secoli, fornendo in una direzione risultati da applicare e nella direzione opposta stimoli alla ricerca.
Il rapporto scienza – tecnologia scientifica non richiede però uno sviluppo sincronico dei due termini. Un periodo storico in cui lo sviluppo scientifico è strettamente collegato allo sviluppo delle applicazioni (come è stato, ad esempio, quello della seconda rivoluzione industriale) può essere seguito da un altro in cui la tecnologia può evolvere autonomamente dalla ricerca di base, essendosi accumulata una riserva sufficiente di teorie scientifiche.
Ciascuno degli anelli della catena precedente tende d’altra parte a crescere esponenzialmente non solo per la crescita degli anelli cui è collegato, ma anche per spinte interne. La scienza, in particolare, tende a crescere non solo per la crescente richiesta di risultati applicabili, ma anche per le autonome esigenze di espansione del ceto dei ricercatori (che negli ultimi decenni è cresciuto tanto da acquistare un notevole peso politico).
Supponiamo che ad un certo punto la ricaduta applicativa non sia riuscita a seguire la crescita esponenziale della scienza esatta. Quest’ipotesi richiederebbe una verifica difficile, perché gli scienziati hanno interesse a negarla, ma vari elementi fanno pensare che essa corrisponda alla realtà. Se ci chiediamo su quale teoria fisica o matematica siano fondati i progressi tecnologici dei nostri giorni, probabilmente nella maggioranza dei casi troviamo conoscenze che erano già note una cinquantina di anni fa (mi riferisco alle basi teoriche, e non agli sviluppi relativi alle particolari applicazioni). Ricordiamo, per fare un solo esempio, che lo sviluppo dell’elettrotecnica aveva invece accompagnato senza iati temporali rilevanti lo sviluppo teorico dell’elettromagnetismo. Il crollo delle iscrizioni ai corsi in matematica e fisica, che da diversi anni riguarda tutto il mondo occidentale, fa pensare che del fenomeno esista una percezione diffusa. Anche la circostanza che uno dei due principali centri della scienza esatta, quello russo, sia stato cancellato d’un tratto (come conseguenza, e non come causa, di una crisi economica e politica) fa pensare che esso fosse sovradimensionato rispetto al suo ruolo economico.
Nell’ipotesi fatta, quale sarebbe stata la risposta della comunità scientifica? È facile immaginare che non sarebbe stata l’autolimitazione volontaria del proprio sviluppo. Ai cultori della “scienza esatta” rimasti privi di sbocchi applicativi si sarebbero aperte essenzialmente tre strade:
1) mutare il proprio rapporto con la teoria, divenendo tecnologi, sviluppando cioè applicazioni tecnologiche di teorie scientifiche già note. Si tratta di un’alternativa che è stata effettivamente scelta non solo da fisici, ma anche da molti matematici. Ricordo solo gli algebristi divenuti esperti dei sistemi di sicurezza delle vendite “on line” e i fisici matematici convertitisi al trattamento di immagini.
2) Continuare a fare ricerca indipendentemente dal venir meno degli sbocchi tecnologici. Chi ha scelto questa strada ha potuto percorrerla in vari modi che sintetizzo con tre possibilità:
2a) Con candido disinteresse verso il problema del costo sociale delle proprie ricerche. Si tratta dell’alternativa apparentemente seguita dalla maggioranza dei ricercatori. In questa categoria (insieme a qualche scienziato serio, che ottiene risultati di interesse generale), rientra infatti la maggioranza degli autori dei lavori scientifici, che, come ha ricordato Marino Badiale, non sono mai letti né citati da nessuno. Si può aggiungere che la quantità di citazioni ottenute da un lavoro è un elemento utile per giudicare il grado di inserimento degli autori nella comunità scientifica e la loro capacità di stimolare la produzione di altre pubblicazioni (due caratteristiche che dipendono anche dal valore scientifico), ma non necessariamente la loro utilità sociale. La prassi di giudicare i lavori sulla base del loro impact factor (che misura la quantità di citazioni ottenute) costituisce anzi uno stimolo oggettivo a creare “comunità di scambio” e a scrivere lavori facilmente continuabili da altri (ad esempio affrontando problemi relativamente semplici senza risolverli compiutamente).
2b) cercando di attirare finanziamenti sostituendo le motivazioni tecnologiche con altri argomenti, scelti soprattutto in base alla loro presa sul grosso pubblico. La fisica delle particelle elementari, ad esempio, che richiede grossi finanziamenti che erano stati inizialmente assicurati dalle previste applicazioni militari ed industriali, ha tentato di arginare la decurtazione dei fondi enfatizzando la propria utilità nel far luce sulla Genesi dell’Universo. Alcuni astronomi sono riusciti a far finanziare progetti di ricerca della vita extragalattica; altri si sono proposti come controllori degli asteroidi che potrebbero colpire la Terra. Peraltro l’esigenza di disintegrare gli asteroidi pericolosi è stata sostenuta anche nel tentativo di rianimare il mercato delle armi nucleari, entrato in crisi in seguito alla fine della guerra fredda (non senza pesanti conseguenze sui finanziamenti alla ricerca).
2c) Trovando un mercato per i propri risultati direttamente nel grosso pubblico. Teorie matematiche come la “teoria delle catastrofi” , i frattali o la complessità (per citare tre esempi che si sono succeduti nel tempo) hanno ottenuto un notevole successo di mercato, generando vari prodotti: non solo libri, ma, ad esempio, nel caso dei frattali, anche poster o software. Questa possibilità può sconfinare nel caso 2b e nel prossimo caso 3.
3) Restava infine agli scienziati la possibilità di riciclarsi come “operatori culturali”, scrivendo libri e articoli di divulgazione, producendo software dimostrativo, organizzando programmi radiofonici e televisivi, mostre e eventi culturali vari. Questa scelta è stata fatta propria da una percentuale quantitativamente significativa, e soprattutto influente, di ricercatori. Altre opportunità di lavoro sono state procurate dal moltiplicarsi di musei della scienza, scuole per preparare divulgatori scientifici, corsi per preparare organizzatori di musei della scienza, e così via. Si tratta spesso di iniziative utili ed interessanti (ad alcune delle quali ho partecipato), ma credo che la loro crescita quantitativa non offra di per sé troppi motivi di soddisfazione, in quanto temo sia dovuta anche all’esigenza di riciclare personale scientifico sovrabbondante.
Le scelte analizzate finora hanno un importante elemento in comune. Quella che classicamente era stata la caratteristica essenziale del metodo della “scienza esatta”, ossia il metodo ipotetico-deduttivo, che assicurava la coerenza interna delle teorie, diviene in ogni caso un optional e spesso è sconsigliabile. Chi sviluppa una teoria che non sarà mai applicata da nessuno, scrivendo lavori che nessuno leggerà, può ovviamente fare a meno del rigore, che non interessa neppure chi scrive best-seller divulgativi, ma (è questo il punto più interessante!) esso non riguarda nemmeno chi opta per la scelta 1, sviluppando applicazioni particolari di teorie già consolidate. Il metodo tipico di quest’ultima categoria di ricercatori non è quello tradizionale della scienza esatta, ma piuttosto l’applicazione a nuovi casi di “protocolli” convalidati dall’esperienza. All’origine dei protocolli vi sono spesso teorie scientifiche rigorose, ma la loro forma finale è dovuta a una serie di adattamenti suggeriti dall’esperienza. Il rigore delle teorie classiche era essenziale perché esse, dovendo fornire una base comune ad un insieme potenzialmente illimitato di applicazioni, non potevano tollerare debolezze che, pur essendo irrilevanti in un caso, potevano divenire fatali in un’ applicazione diversa. Chi invece deve sviluppare una singola applicazione può, più economicamente, ottenere il risultato finale con una serie di “prove ed errori”, soprattutto se, come accade oggi, gli elaboratori permettono di gestire un enorme insieme di dati, creando strutture quantitative adattabili ad ogni circostanza con serie sufficientemente lunghe di tentativi. In questo modo metodi tradizionalmente caratteristici delle scienze empiriche sono entrati nei campi una volta riservati alla scienza esatta.

8. Il nuovo ruolo della biologia: le biotecnologie
Con un processo simmetrico a quello appena descritto, le scienze empiriche, e in primo luogo quelle biologiche, si sono avvicinate al metodo un tempo riservato alla scienza esatta, acquisendo quelle capacità di progettazione tecnologica che fino a qualche decennio fa era loro precluso. Ho già notato che il metodo classico della scienza esatta, consistente nel ricavare moltissime conseguenze da poche premesse, non consente di descrivere le strutture prodotte da un grande insieme di elementi nel corso di una storia largamente casuale, come sono le strutture viventi o le culture umane. Il nuovo metodo accennato al punto precedente, basato su protocolli adattabili in modo automatico, è molto più duttile e ha potuto essere esteso alla biologia, dando origine alle biotecnologie. Si è così aperto un settore di ricerca con enormi potenzialità di sviluppo, in quanto in questo campo gli oggetti di studio virtualmente suscettibili di applicazioni sono praticamente illimitati. Il prezzo pagato è stata la parziale perdita di controllo sulle procedure realmente seguite. La progettazione di un OGM, ad esempio, non è una “progettazione” in senso classico, in quanto la relazione tra le modifiche apportate al corredo genetico e il risultato fenotipico desiderato non può essere compiutamente “capita”, ma solo ottenuta empiricamente sulla base della raccolta di un’enorme quantità di informazione.

9. Complessità
Lo scarso livello di comprensione sintetica del proprio oggetto di ricerca da parte dei nuovi scienziati impegnati nella gestione dell’elaborazione automatica di enormi banche dati viene spesso percepita e presentata al pubblico come una scoperta fondamentale: quella che il mondo è “complesso” e non è quindi comprensibile: verità che sarebbe sfuggita agli ingenui cultori della scienza esatta tradizionale. Naturalmente, poiché i nuovi metodi permettono di affrontare in modo semi-empirico problemi che la scienza precedente avrebbe accantonato come inaccessibili, vi è realmente una complessità nuova nei problemi affrontati. Essa però non implica né che non sia bene conservare l’uso di modelli semplici e comprensibili in tutte le occasioni in cui funzionano, né che non si debba perseguire l’obiettivo di una comprensione sintetica anche nei casi nuovi. In molti casi bisogna naturalmente elaborare un livello diverso di comprensione, che prescinda dalla moltitudine di dettagli che oggi sono gestibili automaticamente. Il fatto che le affermazioni ideologiche sulla “complessità” vengano avvalorate con il richiamo a teorie matematiche in cui si usa lo stesso termine costituisce un esempio di un fenomeno già accennato.

--- continua ---

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Messaggio  stefanoisola Gio 26 Mar 2009, 17:25

10. Ruolo sociale della scienza
Credo che il rapporto scienza – tecnologia, e il suo mutamento avveuto negli ultimi decenni, sia centrale rispetto ai temi sollevati da Badiale. È diffuso il timore che la riduzione del valore della scienza alla sua capacità di produrre tecnologia sia uno dei principali fattori dell’attuale crisi e che occorra combattere questa tendenza recuperando il valore della conoscenza “disinteressata”. Si tratta di una tesi che condivido in larga misura, ma che a mio parere deve essere precisata sotto vari aspetti. Innanzitutto bisogna precisare cosa si intende per conoscenza “disinteressata”. Mi sembra evidente che la contrapposizione non debba essere tra conoscenze utili e conoscenze prive di qualsiasi utilità, ma tra la ricerca miope dell’utilità immediata e la disponibilità ad investire energie per ottenere in cambio strumenti conoscitivi che potranno essere utili indirettamente nel futuro, a noi o agli altri. Naturalmente nel secondo caso l’acquisizione di risultati provoca anche un piacere intellettuale, che è sufficiente per giustificare il lavoro fatto dal punto di vista individuale, ma credo che tale piacere sia connesso, in ultima analisi, alla speranza che la conoscenza ottenuta potrà un giorno servire a qualcosa. Gli studi storici, ad esempio, sono stati sempre coltivati con la speranza che una migliore conoscenza del passato sia utile per vivere più consapevolmente il presente e quindi, indirettamente, per costruire un futuro migliore.
Nel caso della scienza esatta il valore conoscitivo è sempre stato intrecciato in modo inscindibile alla sua capacità di produrre nuova tecnologia. Non è quindi possibile, né auspicabile, contrapporre all’attuale deriva tecnologica l’ideale di una scienza totalmente disinteressata alla tecnologia. La novità nel rapporto tra scienza e tecnologia consiste nell’indebolimento di quel rapporto dialettico tra il livello teorico e il livello applicativo che era stata una caratteristica essenziale del metodo scientifico e la conseguente rapida divergenza tra una scienza appiattita sulla tecnologia e una scienza teorica che continua a sviluppare risultati astratti di cui ha dimenticato le motivazioni. Naturalmente entrambi i settori, per propria natura, tendono a proliferare generando una moltitudine di specializzazioni prive di comunicazione reciproca.
Il nuovo tipo di “scienza applicata” pone in modo del tutto nuovo il problema del suo ruolo sociale. È ancora diffusa l’idea che la ricerca scientifica sia un bene in sé, in quanto accresce la conoscenza, e che quindi non debba essere ostacolata per l’eventuale cattivo uso delle sue applicazioni. Si tratta di un’idea nata in riferimento alle teorie classiche, che non generavano direttamente applicazioni tecnologiche, ma ne rendevano possibili una quantità potenzialmente illimitata. Una generica “libertà di ricerca” non può invece essere invocata nel caso di ricerche che consistono nello sviluppo di una singola applicazione.
Nell’imputare ad un eccessivo interesse per la tecnologia la crisi della scienza si compie forse anche un errore di ingenuità. Ciò che realmente interessa i finanziatori della ricerca non è la tecnologia in sé, ma i risultati economici ricavabili dallo sviluppo tecnologico. Come quindi il loro interesse per la scienza di base viene meno quando non è più utile per ricavarne applicazioni tecnologiche, così anche l’interesse per la tecnologia può venir meno se si trovano altri sistemi più efficienti per produrre ricchezza. In molti casi la concorrenza tra aziende non avviene più sulla qualità tecnologica dei prodotti, che sono il più delle volte equivalenti, ma sulle forme di promozione pubblicitaria. Non è un caso se i dirigenti dei settori vendite sono pagati più di quelli dei settori “ricerca e sviluppo”. L’organizzazione del sapere si adegua, privilegiando, più delle conoscenze tecnologiche, le tecniche di marketing e le scienze della comunicazione. A volte lo slittamento dalla tecnologia al marketing può essere mascherato dalla terminologia: ad esempio gli indici di borsa includono tra i titoli “tecnologici” quelli relativi ad aziende che distribuiscono prodotti “on line” .
La dilagante sostituzione dell’argomentazione coerente con la libera associazione di idee ha probabilmente una delle sue sorgenti nell’importanza crescente che nelle aziende hanno assunto i “creativi”, esperti nell’indurre appunto associazioni di idee, rispetto ai tradizionali ingegneri, che difficilmente potevano evitare la coerenza.

11. Quale futuro?
La crisi della scienza esatta e la diffusione dell’irrazionalismo non implicano necessariamente una catastrofe culturale globale. Dalle scienze biologiche vengono certamente conoscenze nuove con importanti ricadute culturali. La paleoantropologia, ad esempio, sembra avere appurato che l’evoluzione degli ominidi non ha seguito un andamento lineare, ma ha avuto una struttura ad albero, con più ominidi presenti contemporaneamente lungo quasi tutta l’evoluzione. L’idea che si potessero ordinare i vari ominidi in un’unica sequenza, classificandoli semplicemente sulla base della loro “distanza” da noi, che è stata così superata, aveva una chiara, anche se inconsapevole, origine ideologica: era basata sull’assunzione di un’evoluzione teleologica, rivolta verso di noi. Lo stesso pregiudizio ideologico ha giocato probabilmente un ruolo importante nella storia della cultura, facendo ritenere a molti storici che le civiltà del passato fossero classificabili anch’esse determinandone la distanza da noi. Uno dei massimi storici delle civiltà classiche del nostro secolo, Finley, ha sostenuto la primitività dell’economia antica e l’assenza di “razionalità economica” nella civiltà classica. Tra i tanti argomenti a sostegno della sua tesi ha portato anche quello che non è posibile tradurre il termine broker in greco antico o in latino. Se si pensa che tutte le civiltà sono incamminate sullo stesso percorso, allora l’effetto delle “catastrofi culturali” non può essere troppo grave: si tratta di rimanere fermi o indietreggiare per qualche secolo, ma poi si ritorna sempre allo stesso punto: si finirà sempre con il riavere i brokers (e i geometri differenziali). Se invece l’idea del percorso prestabilito è solo un nostro pregiudizio ideologico, allora la scomparsa definitiva di conquiste culturali diviene possibile. I nuovi risultati della paleoantropologia forniscono quindi un motivo in più per custodire con cura la memoria storica.
Sappiamo cos’è stata la scienza nei secoli scorsi. Non sappiamo se quella del XXI secolo sarà migliore o peggiore. La diseguaglianza XXI > XX non fornisce a questo proposito alcun elemento utile. Per scongiurare il pericolo di un crollo sarebbe certamente sufficiente non perdere la memoria del passato. Su questo punto il mio accordo con Badiale è totale.
Se possiamo cercare di conservare la memoria del passato, dobbiamo però anche cercare di progettare il futuro. In che direzione potremmo costruire la “scienza più adulta” auspicata da Badiale? Mi sembra che sarebbe essenziale diminuire l’ampiezza della forbice tra ciò che i ricercatori fanno realmente e ciò che credono di fare. Intendo riferirmi sia al problema filosofico di chiarire il reale valore conoscitivo dei risultati scientifici (che credo continui ad essere essenziale nella filosofia della scienza) sia al problema sociale (non indipendente dal precedente) di evitare di ottenere i risultati voluti producendo come esiti collaterali catastrofi impreviste.

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Messaggio  Nicoletta Mer 01 Apr 2009, 18:00

Silvana ha scritto:cari viandanti, solo oggi rientro nel forum e sono non poco frastornata da tutto quello che ho letto.
Idem per me, che leggo, ma per cominciare a capire devo rileggere...

2) che la tecnica, come ogni azione umana, di per sè volta a una trasformazione se pur limitata del mondo circostante, ha un volto ambivalente, per l'effetto immediato voluto, e per gli effetti non prevedibili a medio e lungo termine
Anni fa, in una bacheca dell'ospedale "Molinette" di Torino lessi una frase paradossale che non ho più dimenticato:
"Vi promettiamo che con la tecnologia vi risolveremo tutti i problemi creati dalla tecnologia".
Non era firmata, chissà chi l'aveva affissa?
sarà perchè sono l'unica donna del gruppo....
Ci sarei anch'io, ma mi rendo conto che non riesco a stare dietro a tutti gli impegni che prendo...

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