4. Sulle cause della crisi
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4. Sulle cause della crisi
Quali sono le cause della crisi?
Sulle cause della crisi mi pare utile seguire lo schema di ragionamento proposto da Ennio (vedi post del 1° aprile).
Le premesse mi sembrano indiscutibili: privilegio monetario Usa, neoliberismo, sviluppo tecniche finanziarie, ruolo delle economie asiatiche sono sicuramente gli elementi che hanno condotto alla situazione attuale.
Su questo mi limito a qualche osservazione di dettaglio, per poi introdurre alcuni elementi di carattere generale che vanno oltre – o, se si vuole, in parallelo – alle dinamiche finanziarie. Queste ultime rappresentano certamente il fattore scatenante della crisi, ma non bisogna isolarle da altri aspetti (sociali, ambientali, produttivi, geopolitici) altrettanto importanti.
Piccole osservazioni sul ragionamento di Ennio
1. La crescita della disuguaglianza ha riguardato soprattutto gli Usa, ma non soltanto gli Usa: si è trattato piuttosto di un fenomeno globale e gigantesco, illustrato in decine di studi, che ha preso l’avvio dagli anni ’80. Alcuni attribuiscono l’innesco del fenomeno al cosiddetto monetarismo. A me pare che sia riconducibile all’intreccio di 3 fenomeni sociali e politici: a) l’eclissi del vecchio movimento operaio europeo, b) l’esaurirsi della spinta del movimento anticoloniale (e dei “non allineati”), c) la crisi disastrosa del blocco sovietico. Lo scatenarsi degli “spiriti animali”, consentito da questo intreccio, ha portato alla possibilità/necessità di drogare il sistema con le conseguenze che oggi possiamo apprezzare appieno.
2. Prestiti in luogo di redistribuzione è stata certamente la chiave americana per rimandare la resa dei conti. Tuttavia il processo di americanizzazione che ha investito – ovviamente a livelli diversi – il mondo intero, aveva al suo interno anche l’idea della vita “a debito” che, sempre in maniera assai diversificata, ha riguardato anche l’Europa (Gran Bretagna in primo luogo). Resta ovviamente il fatto che gli Usa, in virtù del privilegio monetario, hanno potuto utilizzare questo meccanismo di compensazione in maniera più accentuata. Una differenza, quella tra Usa ed Europa, che spiega assai bene il differenziale di crescita tra queste due realtà economiche verificatasi nell’ultimo decennio, con l’Europa sempre ad un passo dalla stagnazione e gli Usa 2 o 3 punti sopra grazie alla domanda interna drogata.
3. La riduzione dei consumi degli statunitensi, che Ennio quantifica nel 10-15%, è certamente un dato di fatto. Ma il resto del mondo? In una recente intervista al Corriere della Sera, Ralf Dahrendorf – icona del liberalismo alla fine del secolo scorso – ha formulato la seguente previsione: “Ridurremo i nostri standard di vita del 20%, torneremo ai livelli precedenti a quelli di Reagan e Tatcher”, cioè agli anni ’70, anche se lui richiama espressamente gli anni del dopoguerra. Dahrendorf non è un’economista, e del resto neppure gli economisti sono davvero in grado di fare vere previsioni, ma mi pare chiaro che questa sia la percezione diffusa nella classe dirigente. Nella stessa intervista Dahrendorf sottolinea che per affrontare la crescita del debito pubblico vi sarà necessariamente un periodo non breve di tasse alte ed alta inflazione, con conseguenze sociali pesantissime.
Cito queste considerazioni per dire che probabilmente ci attende un calo dei consumi più pesante ed esteso di quello finora prefigurato, anche se probabilmente esso verrà spalmato (almeno questo sarà il tentativo) su più anni, cercando così di attenuare lo shock sociale e le sue possibili conseguenze politiche.
Gli altri fattori alla base della crisi
Come ho già detto trovo convincente lo schema proposto da Ennio per quel che concerne le cause della crisi finanziaria. Ma si tratta “soltanto” di una crisi finanziaria, per quanto gigantesca?
Il documento fondativo dell’Ard inizia con questa affermazione: “La grave crisi economico-finanziaria che il capitalismo mondiale sta soffrendo si aggiunge a quelle ambientale, energetica, alimentare ed a quella del sistema politico monopolare incentrato sulla supremazia nordamericana. Per questo parliamo di crisi sistemica. Nel nostro paese gli effetti di questa crisi globale si aggiungono a quelli interni di sfascio morale, politico e istituzionale”.
Forse più che la somma dovremmo vedere la relazione reciproca tra questi fattori nella determinazione della crisi attuale. Per uscire da un’affermazione generica e passare ad una visione più compiuta abbiamo bisogno di approfondire proprio queste relazioni. C’è tutto un lavoro da fare e qui non posso far altro che limitarmi ad alcuni spunti. Sul ruolo della disuguaglianza come fattore di crisi (calo dei consumi ecc.) ha già detto Ennio, ma è interessante sottolineare come questo nodo evidenzi il fallimento catastrofico della concezione liberale. E’ un fatto di cui ancora non riusciamo ad avvantaggiarci politicamente, ma è pur sempre un fatto enorme che non possiamo immaginare come privo di conseguenze. La crescente disuguaglianza non è solo un’offesa ai valori etico-morali sui quali si fonda necessariamente una civiltà, ma è anche un elemento di crisi generale. Interessante, no?
Vediamo ora altri tre aspetti:
1. Questione delle materie prime e crisi ambientale
Prima dello scoppio della crisi finanziaria il pianeta ha conosciuto una crescita senza precedenti dei prezzi della materie prime. Non solo delle fonti energetiche, ma anche dei metalli e dei prodotti agro-alimentari. Iniziata la crisi, i prezzi dell’energia e dei metalli sono crollati, quelli del settore alimentare sono calati sia pure in maniera assai meno sensibile.
Si tratta di movimenti puramente speculativi? Se così fosse dovremmo concludere che il mondo è semplicemente in mano ad un pugno di speculatori pronti a lucrare su tutto, dalle azioni ai titoli tossici, dal settore immobiliare ai terreni, dal petrolio al riso. Il capitalismo reale è certamente anche questo, ma non credo che la speculazione (sempre presente) potrebbe far molto se non vi fossero le condizioni strutturali adatte.
Diversi elementi ci dicono che i mercati delle materie prime sono in forte tensione. Prendiamo il caso del petrolio. Salito a 100 dollari al barile nella prima parte del 2008, schizzato per un breve periodo quasi a 150 dollari, è ripiombato in pochissime settimane al prezzo di 40/50 dollari. Eppure il calo dei consumi è stato di circa 200mila barili/die, praticamente un modestissimo -0,2% sui consumi totali. Facile immaginarsi cosa accadrà non appena vi sarà una ripresina.
Qual è stato il peso della corsa dei prezzi delle materie prime nell’innesco della crisi? Una risposta bisognerà pur darsela, ma sembra difficile sostenere che si sia trattato di un ruolo del tutto secondario (aumento dei costi di produzione, trasferimento di risorse verso i paesi produttori di materie prime, ecc.).
Accanto alla questione delle materie prime dovremmo esaminare il peso economico dei problemi ambientali. La natura non è più quella dei tempi della rivoluzione industriale, pronta ad essere sfruttata da ogni lato. Oggi, acqua, aria, suolo presentano dei limiti non trascurabili allo “sviluppo”, cioè alla crescita ininterrotta del Pil. E’ una forzatura voler vedere nell’attuale crisi questo aspetto? Penso di no. Guardiamo ad esempio al settore edilizio, in prima linea per aver prodotto il fenomeno dei mutui subprime, ma anche come risposta anticiclica classica (vedi il caso italiano). Proprio quest’ultimo caso mostra l’insostenibilità di una politica volta sempre e comunque al rilancio del Pil costi quel che costi.
2. Sovrapproduzione
La tendenza alla sovrapproduzione è insita nel capitalismo, che spesso è uscito dalle sue crisi congiunturali con un rilancio della domanda legato a nuove tecnologie, nuovi prodotti, dunque nuovi mercati. Esempio: quanto ha inciso lo sviluppo del mercato dell’auto dopo il 1945? Oppure, quanto ha pesato l’inizio dell’elettrificazione per uscire dalla grande depressione del 1873-1895 e dalle crisi che precedettero il 1914? Certo, altri fenomeni imponenti (tra i quali due guerre mondiali) hanno fatto da volano a questi processi, ma sempre la creazione (e poi l’estensione) di nuove filiere è stata decisiva.
In tempi più recenti, le recessioni dei primi anni ’80 e dei primi anni ’90 hanno trovato una parziale risposta nello sviluppo dell’informatica e dei prodotti ad essa correlati.
Ed oggi? Oggi anche informatica ed elettronica sembrano settori saturi. E fa un po’ specie vedere i vari stati nazionali ricorrere ancora all’auto, agli elettrodomestici (rottamazione) ed all’edilizia.
In sostanza, il capitalismo non ha saputo tenere il passo che gli è necessario per rimanere in sufficiente equilibrio. La sovrapproduzione è un dato strutturale assai evidente che non è stato possibile ovviare con l’apertura di nuovi comparti strategici. Naturalmente non è così in assoluto, basti pensare allo sviluppo delle biotecnologie; né è detto che sarà così nel prossimo futuro, ma non è detto neppure il contrario. Ed in ogni caso i limiti fisici allo “sviluppo” quantitativo sono lì a ricordarci la follia di un sistema che trova un (sempre parziale ed incerto) equilibrio solo nella corsa.
3. Geopolitica
La crisi si è innescata negli Usa. Dubito che ciò sarebbe potuto avvenire senza le difficoltà incontrate dal progetto imperiale americano: impantanamenti militari dovuti alle resistenze, riemersione della Russia quantomeno come potenza regionale, parziale processo di sganciamento da parte dell’America Latina.
Certo, anche in caso di vittoria della strategia bushiana i nodi economico-finanziari sarebbero venuti al pettine, ma ritengo in maniera diversa.
Qui non entro sui possibili sviluppi (probabilmente devastanti). Bisogna però sottolineare che i momenti di vera crisi coincidono in genere con i mutamenti negli assetti geopolitici. Ad esempio, i 16 anni che vanno dal 1929 al 1945 vedono da un lato lo svilupparsi della depressione (ma, è sempre bene ricordarlo, in maniera non lineare né uniforme); dall’altro il passaggio del ruolo dominante dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti.
Oggi il monopolarismo Usa è in crisi. Questo non vuol dire che verrà superato o tanto meno rovesciato – gli Usa, proprio con Obama, cercheranno di impedirlo con ogni mezzo – ma questa crisi, non meramente economica, è stata certamente una concausa che ha portato allo tsunami finanziario di questi mesi.
Dunque, e concludo anche perché sto sforando la lunghezza prevista, l’analisi economico-finanziaria va a mio avviso integrata con gli aspetti ambientali (in senso lato), con l’analisi della sovrapproduzione, con gli elementi geopolitici. Questo ci sarà utile ai fini della comprensione delle cause, ma forse anche all’individuazione delle linee di sviluppo (che non credo saranno brevi) della crisi.
Leonardo Mazzei
Sulle cause della crisi mi pare utile seguire lo schema di ragionamento proposto da Ennio (vedi post del 1° aprile).
Le premesse mi sembrano indiscutibili: privilegio monetario Usa, neoliberismo, sviluppo tecniche finanziarie, ruolo delle economie asiatiche sono sicuramente gli elementi che hanno condotto alla situazione attuale.
Su questo mi limito a qualche osservazione di dettaglio, per poi introdurre alcuni elementi di carattere generale che vanno oltre – o, se si vuole, in parallelo – alle dinamiche finanziarie. Queste ultime rappresentano certamente il fattore scatenante della crisi, ma non bisogna isolarle da altri aspetti (sociali, ambientali, produttivi, geopolitici) altrettanto importanti.
Piccole osservazioni sul ragionamento di Ennio
1. La crescita della disuguaglianza ha riguardato soprattutto gli Usa, ma non soltanto gli Usa: si è trattato piuttosto di un fenomeno globale e gigantesco, illustrato in decine di studi, che ha preso l’avvio dagli anni ’80. Alcuni attribuiscono l’innesco del fenomeno al cosiddetto monetarismo. A me pare che sia riconducibile all’intreccio di 3 fenomeni sociali e politici: a) l’eclissi del vecchio movimento operaio europeo, b) l’esaurirsi della spinta del movimento anticoloniale (e dei “non allineati”), c) la crisi disastrosa del blocco sovietico. Lo scatenarsi degli “spiriti animali”, consentito da questo intreccio, ha portato alla possibilità/necessità di drogare il sistema con le conseguenze che oggi possiamo apprezzare appieno.
2. Prestiti in luogo di redistribuzione è stata certamente la chiave americana per rimandare la resa dei conti. Tuttavia il processo di americanizzazione che ha investito – ovviamente a livelli diversi – il mondo intero, aveva al suo interno anche l’idea della vita “a debito” che, sempre in maniera assai diversificata, ha riguardato anche l’Europa (Gran Bretagna in primo luogo). Resta ovviamente il fatto che gli Usa, in virtù del privilegio monetario, hanno potuto utilizzare questo meccanismo di compensazione in maniera più accentuata. Una differenza, quella tra Usa ed Europa, che spiega assai bene il differenziale di crescita tra queste due realtà economiche verificatasi nell’ultimo decennio, con l’Europa sempre ad un passo dalla stagnazione e gli Usa 2 o 3 punti sopra grazie alla domanda interna drogata.
3. La riduzione dei consumi degli statunitensi, che Ennio quantifica nel 10-15%, è certamente un dato di fatto. Ma il resto del mondo? In una recente intervista al Corriere della Sera, Ralf Dahrendorf – icona del liberalismo alla fine del secolo scorso – ha formulato la seguente previsione: “Ridurremo i nostri standard di vita del 20%, torneremo ai livelli precedenti a quelli di Reagan e Tatcher”, cioè agli anni ’70, anche se lui richiama espressamente gli anni del dopoguerra. Dahrendorf non è un’economista, e del resto neppure gli economisti sono davvero in grado di fare vere previsioni, ma mi pare chiaro che questa sia la percezione diffusa nella classe dirigente. Nella stessa intervista Dahrendorf sottolinea che per affrontare la crescita del debito pubblico vi sarà necessariamente un periodo non breve di tasse alte ed alta inflazione, con conseguenze sociali pesantissime.
Cito queste considerazioni per dire che probabilmente ci attende un calo dei consumi più pesante ed esteso di quello finora prefigurato, anche se probabilmente esso verrà spalmato (almeno questo sarà il tentativo) su più anni, cercando così di attenuare lo shock sociale e le sue possibili conseguenze politiche.
Gli altri fattori alla base della crisi
Come ho già detto trovo convincente lo schema proposto da Ennio per quel che concerne le cause della crisi finanziaria. Ma si tratta “soltanto” di una crisi finanziaria, per quanto gigantesca?
Il documento fondativo dell’Ard inizia con questa affermazione: “La grave crisi economico-finanziaria che il capitalismo mondiale sta soffrendo si aggiunge a quelle ambientale, energetica, alimentare ed a quella del sistema politico monopolare incentrato sulla supremazia nordamericana. Per questo parliamo di crisi sistemica. Nel nostro paese gli effetti di questa crisi globale si aggiungono a quelli interni di sfascio morale, politico e istituzionale”.
Forse più che la somma dovremmo vedere la relazione reciproca tra questi fattori nella determinazione della crisi attuale. Per uscire da un’affermazione generica e passare ad una visione più compiuta abbiamo bisogno di approfondire proprio queste relazioni. C’è tutto un lavoro da fare e qui non posso far altro che limitarmi ad alcuni spunti. Sul ruolo della disuguaglianza come fattore di crisi (calo dei consumi ecc.) ha già detto Ennio, ma è interessante sottolineare come questo nodo evidenzi il fallimento catastrofico della concezione liberale. E’ un fatto di cui ancora non riusciamo ad avvantaggiarci politicamente, ma è pur sempre un fatto enorme che non possiamo immaginare come privo di conseguenze. La crescente disuguaglianza non è solo un’offesa ai valori etico-morali sui quali si fonda necessariamente una civiltà, ma è anche un elemento di crisi generale. Interessante, no?
Vediamo ora altri tre aspetti:
1. Questione delle materie prime e crisi ambientale
Prima dello scoppio della crisi finanziaria il pianeta ha conosciuto una crescita senza precedenti dei prezzi della materie prime. Non solo delle fonti energetiche, ma anche dei metalli e dei prodotti agro-alimentari. Iniziata la crisi, i prezzi dell’energia e dei metalli sono crollati, quelli del settore alimentare sono calati sia pure in maniera assai meno sensibile.
Si tratta di movimenti puramente speculativi? Se così fosse dovremmo concludere che il mondo è semplicemente in mano ad un pugno di speculatori pronti a lucrare su tutto, dalle azioni ai titoli tossici, dal settore immobiliare ai terreni, dal petrolio al riso. Il capitalismo reale è certamente anche questo, ma non credo che la speculazione (sempre presente) potrebbe far molto se non vi fossero le condizioni strutturali adatte.
Diversi elementi ci dicono che i mercati delle materie prime sono in forte tensione. Prendiamo il caso del petrolio. Salito a 100 dollari al barile nella prima parte del 2008, schizzato per un breve periodo quasi a 150 dollari, è ripiombato in pochissime settimane al prezzo di 40/50 dollari. Eppure il calo dei consumi è stato di circa 200mila barili/die, praticamente un modestissimo -0,2% sui consumi totali. Facile immaginarsi cosa accadrà non appena vi sarà una ripresina.
Qual è stato il peso della corsa dei prezzi delle materie prime nell’innesco della crisi? Una risposta bisognerà pur darsela, ma sembra difficile sostenere che si sia trattato di un ruolo del tutto secondario (aumento dei costi di produzione, trasferimento di risorse verso i paesi produttori di materie prime, ecc.).
Accanto alla questione delle materie prime dovremmo esaminare il peso economico dei problemi ambientali. La natura non è più quella dei tempi della rivoluzione industriale, pronta ad essere sfruttata da ogni lato. Oggi, acqua, aria, suolo presentano dei limiti non trascurabili allo “sviluppo”, cioè alla crescita ininterrotta del Pil. E’ una forzatura voler vedere nell’attuale crisi questo aspetto? Penso di no. Guardiamo ad esempio al settore edilizio, in prima linea per aver prodotto il fenomeno dei mutui subprime, ma anche come risposta anticiclica classica (vedi il caso italiano). Proprio quest’ultimo caso mostra l’insostenibilità di una politica volta sempre e comunque al rilancio del Pil costi quel che costi.
2. Sovrapproduzione
La tendenza alla sovrapproduzione è insita nel capitalismo, che spesso è uscito dalle sue crisi congiunturali con un rilancio della domanda legato a nuove tecnologie, nuovi prodotti, dunque nuovi mercati. Esempio: quanto ha inciso lo sviluppo del mercato dell’auto dopo il 1945? Oppure, quanto ha pesato l’inizio dell’elettrificazione per uscire dalla grande depressione del 1873-1895 e dalle crisi che precedettero il 1914? Certo, altri fenomeni imponenti (tra i quali due guerre mondiali) hanno fatto da volano a questi processi, ma sempre la creazione (e poi l’estensione) di nuove filiere è stata decisiva.
In tempi più recenti, le recessioni dei primi anni ’80 e dei primi anni ’90 hanno trovato una parziale risposta nello sviluppo dell’informatica e dei prodotti ad essa correlati.
Ed oggi? Oggi anche informatica ed elettronica sembrano settori saturi. E fa un po’ specie vedere i vari stati nazionali ricorrere ancora all’auto, agli elettrodomestici (rottamazione) ed all’edilizia.
In sostanza, il capitalismo non ha saputo tenere il passo che gli è necessario per rimanere in sufficiente equilibrio. La sovrapproduzione è un dato strutturale assai evidente che non è stato possibile ovviare con l’apertura di nuovi comparti strategici. Naturalmente non è così in assoluto, basti pensare allo sviluppo delle biotecnologie; né è detto che sarà così nel prossimo futuro, ma non è detto neppure il contrario. Ed in ogni caso i limiti fisici allo “sviluppo” quantitativo sono lì a ricordarci la follia di un sistema che trova un (sempre parziale ed incerto) equilibrio solo nella corsa.
3. Geopolitica
La crisi si è innescata negli Usa. Dubito che ciò sarebbe potuto avvenire senza le difficoltà incontrate dal progetto imperiale americano: impantanamenti militari dovuti alle resistenze, riemersione della Russia quantomeno come potenza regionale, parziale processo di sganciamento da parte dell’America Latina.
Certo, anche in caso di vittoria della strategia bushiana i nodi economico-finanziari sarebbero venuti al pettine, ma ritengo in maniera diversa.
Qui non entro sui possibili sviluppi (probabilmente devastanti). Bisogna però sottolineare che i momenti di vera crisi coincidono in genere con i mutamenti negli assetti geopolitici. Ad esempio, i 16 anni che vanno dal 1929 al 1945 vedono da un lato lo svilupparsi della depressione (ma, è sempre bene ricordarlo, in maniera non lineare né uniforme); dall’altro il passaggio del ruolo dominante dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti.
Oggi il monopolarismo Usa è in crisi. Questo non vuol dire che verrà superato o tanto meno rovesciato – gli Usa, proprio con Obama, cercheranno di impedirlo con ogni mezzo – ma questa crisi, non meramente economica, è stata certamente una concausa che ha portato allo tsunami finanziario di questi mesi.
Dunque, e concludo anche perché sto sforando la lunghezza prevista, l’analisi economico-finanziaria va a mio avviso integrata con gli aspetti ambientali (in senso lato), con l’analisi della sovrapproduzione, con gli elementi geopolitici. Questo ci sarà utile ai fini della comprensione delle cause, ma forse anche all’individuazione delle linee di sviluppo (che non credo saranno brevi) della crisi.
Leonardo Mazzei
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Data di iscrizione : 07.03.09
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