DISCUTENDO DI CHIANCIANO - 16/10/2008
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DISCUTENDO DI CHIANCIANO - 16/10/2008
Premessa alla discussione.
Stiamo ricevendo molte lettere in risposta al nostro invito a partecipare all'incontro di Chianciano del 25 e 26 ottobre. Alcune di queste lettere sono di apprezzamento al manifesto di convocazione e di interesse alla discussione che abbiamo aperto. Altre sono critiche. A queste ultime non possiamo replicare punto per punto. Cercheremo di chiarire alcuni dei nodi teorici fondamentali, che non a caso ricorrono in diversi interventi. Diciamo subito però che non siamo interessati a ripetere la cattiva tradizione delle discussioni sull'ortodossia che non hanno mai fatto fare un progresso vero, né sul piano teorico né su quello pratico. Noi siamo partiti da considerazioni politiche sulla fase e ci siamo misurati con una proposta che avevamo già annunciato dopo la campagna “questa volta no” in occasione delle elezioni dell'aprile scorso. Siamo partiti dunque da un dato di fatto: la risposta astensionista ai professionisti acchiappavoti che ha messo fuori gioco l'arcobaleno e dimostrato la debolezza del veltronismo. Facendo questo non abbiamo affatto pensato che si aprisse la possibilità abbattere il capitalismo, tutt’altro. Però non vogliamo solamente goderci lo spettacolo di una sinistra governista diventata obtorto collo extraparlamentare. Vogliamo misurarci con una ipotesi di sviluppo politico che ha bisogno di verifiche e su questo apriamo la discussione a Chianciano.
Non è il momento di riproporre altre liste elettoriali né di recitare il bignami della rivoluzione per darci ragione da soli.
Pubblicheremo in questo blog tutte le lettere in arrivo. La discussione prosegue a Chianciano.
Michele Basso. Pia desideria, 7 settembre 2008.
In megachip del 4 settembre è apparso un documento di “Questa volta no”, un gruppo che al tempo delle elezioni aveva lanciato una proposta astensionista. Ora scrivono: “La fine della sinistra ha... una radice profonda... La sinistra è stata caratterizzata, nei due secoli della sua esistenza, dal binomio “sviluppo ed emancipazione”: è stata cioè la parte politica, sociale e culturale che ha lottato per l'emancipazione dei ceti subalterni promuovendo lo sviluppo economico e tecnologico. Questa congiunzione è stata possibile perché, fino a tempi recenti, sviluppo ed emancipazione erano compatibili. Ma la situazione è completamente cambiata negli ultimi decenni. La fase storica ... chiamata “globalizzazione” o neoliberismo” rappresenta, fra le altre cose, il momento in cui sviluppo ed emancipazione si separano e si contrappongono. Mentre fino a pochi decenni or sono lo sviluppo economico e tecnologico poteva davvero portare al miglioramento delle condizioni di vita dei ceti subalterni, oggi sviluppo significa attacco ai redditi e ai diritti conquistati dai ceti subalterni nella fase precedente, significa attacco ai territori per le grandi opere necessarie allo sviluppo stesso, significa degrado ambientale e sociale. In questa situazione la posizione che definisce la sinistra, quella cioè di volere l'emancipazione dei ceti subalterni attraverso lo sviluppo, non è più possibile...”
Questa critica sarebbe corretta se si riferisse solo alla sinistra riformista, che effettivamente non ha più spazio se non come forza d’appoggio a uno dei settori della borghesia. L’incompatibilità tra lo sviluppo e il miglioramento della vita delle vaste masse è reale, ma solo nell’ambito del capitalismo. La crescita delle forze produttive è ormai incompatibile con la società borghese, e assume un carattere distruttivo, antisociale. Ma proprio l’impossibilità di riformare il capitalismo senescente rende attuale e storicamente necessaria la sua eliminazione e la socializzazione dei mezzi di produzione, possibili solo se risorge una sinistra rivoluzionaria.
“Si tratta invece di capire come sia possibile far vivere gli ideali di emancipazione, giustizia, solidarietà (o, se si preferisce, i classici ideali di libertà, uguaglianza fraternità) in una situazione in cui non è più possibile la lotta politica come l’abbiamo conosciuta finora.”
Che senso ha la riesumazione delle parole d’ordine della rivoluzione francese? Non si può criticare il riformismo attingendo ad esperienze ancora precedenti, rivoluzionarie certamente, ma borghesi, non più proponibili in un mondo in cui la borghesia è marcia. Oppure si dà a queste parole un significato metastorico, valido per tutte le epoche e tutti sistemi economico sociali, avulso da ogni preciso riferimento storico? L’esperienza ha dimostrato che la libertà della borghesia si trasforma ben presto in libertà di sfruttare a piacimento i lavoratori. Quanto all’emancipazione, oggi ha un senso soltanto se significa emancipazione dei lavoratori, superamento della condizione salariale.
“Bisogna scegliersi nemici”... Fra questi vi sono, oggi in Italia, i componenti della Casta... Lo sviluppo sociale è comandato, in ogni ambito, dall’economia e dalle sue esigenze di profitto... A cosa si riduce allora la politica? A pura e semplice amministrazione dell’esistente, a competizione fra cordate di amministratori, il cui unico ruolo è quello... di gestire il consenso sociale”.
Si possono e si devono utilizzare le inchieste di giornalisti e di studiosi borghesi che mettono in risalto la corruzione, ma bisogna anche saper prendere le distanze dalle loro interpretazioni dei fenomeni sociali. Quando si parla di casta si usa un’espressione brillante, che accomuna più settori della società, ma non si tratta di un concetto scientifico su cui si possa basare un’analisi realistica. Se vogliamo identificare la casta con i soli politicanti, dobbiamo ricordare che il vero nemico principale dei lavoratori è la borghesia, proprietaria di fabbriche, di terre, di banche, e che sarebbe assurdo prendersela con i servi, tralasciando i padroni. Il ceto politico, sempre più parassitario, può essere eliminato in poco tempo, se è troppo costoso o ingombrante per la borghesia. Craxi sembrava onnipotente, Mastella si credeva in una botte di ferro. Quando il personale politico diventa impopolare, la borghesia lo utilizza come capro espiatorio. Perciò, bisogna certamente scegliersi i nemici, non farli scegliere dai giornalisti o scrittori alla moda, che esprimono, coscientemente o no, la visione del mondo e gli interessi di fondo della borghesia.
“La lotta contro la Casta non è di per sé lotta contro i fondamenti dell’attuale sistema socioeconomico, non è di per sé lotta rivoluzionaria. Ma in ogni situazione di lotta contro il potere dominante, si può lottare solo contro quelle articolazioni del potere che il potere stesso ci contrappone”. Magnifico! Si comincia dicendo che bisogna scegliersi il nemico, poi si lascia scegliere al capitale chi dobbiamo combattere, quando, con quali modalità. Se un esercito fa una manovra diversiva in un punto secondario per distrarci dal punto in cui avverrà l’attacco principale, dobbiamo proprio cascarci? E’ forse un caso che il 1992 sia l’anno dell’inizio di mani pulite, ma anche dell’abolizione della scala mobile? Che soddisfazione vedere alti esponenti della “casta” di allora cadere! Il 17 febbraio veniva arrestato Mario Chiesa, il primo grande indagato, ma il 31 luglio 1992 governo e parti sociali firmavano un «Accordo sulla politica dei redditi, la lotta all'inflazione e il costo del lavoro», con cui veniva abolita la scala mobile. La borghesia ci agita davanti agli occhi il drappo rosso per non farci vedere la spada che ci colpirà. Quindi attenzione, perché la campagna contro la Casta ci darà in pasto qualche politico rompiscatole, ma cercherà di farci dimenticare la continua perdita di diritti e di potere d’acquisto che ci sta riducendo al limite, sul piano politico, sociale ed economico, e ciò avverrà finché la borghesia riuscirà a scegliere per noi quali nemici dobbiamo combattere, e ci saranno dei militanti “innovatori”, che hanno accantonato “l’inutile marxismo”, e che si precipiteranno nella trappola, trascinandosi dietro gli altri. Governo e sindacati stanno discutendo la controriforma dei contratti collettivi nazionali di lavoro, è questo un problema che dobbiamo tenere sempre presente.
Il documento pone poi il problema della decrescita: “Con tale nozione si intende il rifiuto dello sviluppo inteso come aumento del Prodotto Interno Lordo, e la proposta di una sua progressiva diminuzione. Ciò coincide... con la proposta della progressiva diminuzione dell'offerta di beni sotto forma di merci (la merce è il bene prodotto per il mercato, in vista di un profitto monetario e dotato quindi di un prezzo), e dell'espansione dell'offerta di beni non in forma di merci. La proposta della decrescita non implica necessariamente la diminuzione dell'offerta di beni, ma nelle condizioni attuali è possibile e sensata solo assieme ad una profonda riforma intellettuale e morale che porti a scelte di vita contrassegnate da sobrietà e rifiuto del consumismo.” Più facile a dirsi che a farsi. In una società appena uscita dal feudalesimo, composta in gran parte da contadini e artigiani, sarebbe possibile uno scambio senza denaro, un baratto, ma in una società in cui chi produce è abituato a fare non prodotti finiti, ma componenti del prodotto, come è possibile? Chi produce paia di scarpe può cambiarle con prodotti agricoli, ma chi produce tomaie o tacchi, o componenti elettroniche? La divisione crescente del lavoro rende impossibile ogni uscita dal mercato che non sia a livello dell’intera società. Esperienze di isole non mercantili sono fallite in massa nell’Ottocento, anche se guidate da innovatori geniali come Owen. Non si vede come possano riuscire ora, quando la potenza del mercato è enormemente accresciuta.
La produzione di beni in forma non mercantile è possibile dunque in due modi diversi.
Il primo è l’autoconsumo: piccoli produttori producono esclusivamente o prevalentemente per il proprio consumo, e si scambiano le eccedenze. In seguito, con lo sviluppo mercantile, una parte crescente passa attraverso il mercato. L’altro modo di evitare la forma mercantile è attraverso la socializzazione, che richiede però la grande produzione e un livello di produttività assai alto, quindi un progresso, ma con scopi e modalità assai diverse da quelle capitalistiche. Questo però richiede la conquista del potere politico da parte dei lavoratori, l’espropriazione della borghesia, cioè una rivoluzione politica e sociale, e non può essere ottenuto con una riforma intellettuale e morale. Il cosiddetto consumismo, poi, riguarda solo una piccola fascia delle popolazione mondiale, perché la restante parte è all’indigenza e alla fame, e deve aumentare e non diminuire i propri consumi.
Il proletariato al potere ridurrà certamente la produzione dell’acciaio, che serve in buona parte a produrre armi e opere pubbliche inutili, quella di prodotti superflui o dannosi, ma dovrà incrementare la produzione alimentare e di tutta una serie di prodotti, dai mobili ai libri, dalle case popolari all’informatica che dovrà essere diffusa a tutte le fasce ora escluse. Il capitalismo non è l’economia dei consumi – se non per pochi - ma è l’economia dello spreco, non solo degli oggetti prodotti, ma anche e soprattutto del lavoro umano.
“Un secondo punto si collega a un altro dato profondo della realtà contemporanea, cioè il progetto di dominio globale del pianeta, e in particolare delle zone rilevanti per il controllo delle risorse, progetto che gli USA hanno iniziato a mettere in atto a partire dagli ultimi anni dell'amministrazione Clinton, e in maniera evidente a tutti dopo l'11 settembre”.
Spiace dover ripetere le stesse cose, ma gli Stati Uniti già alla fine della prima guerra mondiale con la loro finanza e la loro gigantesca produzione industriale facevano il bello e il cattivo tempo nell’economia mondiale e i loro commerci sostituivano quelli dei paesi europei nelle semicolonie e persino nelle colonie. Nel periodo di maggiore forza economica e politica, nei primi vent’anni dopo la guerra, spesso non era necessario far guerra a un paese ribelle, bastava un colpo di stato. E’ proprio la perdita di potere e di credibilità degli USA che rende particolarmente evidenti e intollerabili i loro progetti di dominio. Kennedy era imperialista quanto Bush, ma quando venne a Napoli, la folla ruppe i cordoni di sicurezza non per contestarlo, ma per fargli festa. Il dominio USA era talmente consolidato in Europa da trasformarsi in consenso spontaneo. Oggi il governo americano è così odiato, perché la sua debolezza politica lo costringe a usare spesso la forza.
La repressione in America ha toccato punte altissime, ma non si dimentichi che per buona parte del novecento molti neri furono bruciati vivi o impiccati, e negli anni venti molti comunisti furono gettati nel catrame bollente. La repressione la si nota ora perché non tocca più soltanto afroamericani, ispanici, arabi, lavoratori salariati in lotta, ma anche rispettabili appartenenti alla classe media.
Ma la natura smaccatamente riformistica del documento la si vede soprattutto dall’apologia della costituzione repubblicana, giungendo a dire che “l’attuazione della carta costituzionale configurerebbe una vera e propria rivoluzione economica, sociale e politica”. Si aggiunge che l’art. 43, che prevede l’espropriazione, salvo indennizzo, di imprese “che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, secondo il documento sarebbe marxista. Con questo criterio, sarebbero d’ispirazione marxista gli articoli 834 (Espropriazione per pubblico interesse) e 838 (Espropriazione dei beni che interessano la produzione nazionale o di prevalente interesse pubblico) del Codice civile del 1942, tuttora vigente, che porta le firme di Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della nazione re d’Italia e d’Albania e Imperatore d’Etiopia, di Benito Mussolini e del guardasigilli Grandi. E sarebbero marxisti Giolitti, che nazionalizzò le assicurazioni e Bismarck, che fece altrettanto con le ferrovie.
Quindi la difesa dei diritti dei lavoratori, la demercificazione dell’economia, la sua definaziarizzazione sarebbero possibili con l’attuazione della costituzione, per cui propongono un movimento politico che s’ispiri ai suoi principi. Ma la costituzione all’art. 42 riconosce e garantisce la proprietà privata, e inevitabilmente proprietà privata vuol dire accumulazione di capitale, mantenimento della condizione salariale, profitto, rendita, interesse, cioè tutte le categorie del capitalismo. E’ questa la vostra rivoluzione? Volete che una società che abbia tutte le categorie del capitalismo, ma senza averne i difetti, e che vi permetta addirittura di demercificare l’economia.
La costituzione non nasce dal nulla, o dall’idillico incontro di liberali, cattolici e marxisti, ma è l’idealizzazione della società borghese. Assurdo distaccarla da questa realtà e pensare che sia una scorciatoia legale verso una società nuova. Certo, come una qualsiasi altra legge può essere utilizzata per difendersi. Chi viene arrestato perché manifesta contro gli interventi militari italiani può citare l’art. 11. Ma la mitizzazione della costituzione, è il marchio di fabbrica di tutti i riformismi.
--> Vai alla seconda parte
Stiamo ricevendo molte lettere in risposta al nostro invito a partecipare all'incontro di Chianciano del 25 e 26 ottobre. Alcune di queste lettere sono di apprezzamento al manifesto di convocazione e di interesse alla discussione che abbiamo aperto. Altre sono critiche. A queste ultime non possiamo replicare punto per punto. Cercheremo di chiarire alcuni dei nodi teorici fondamentali, che non a caso ricorrono in diversi interventi. Diciamo subito però che non siamo interessati a ripetere la cattiva tradizione delle discussioni sull'ortodossia che non hanno mai fatto fare un progresso vero, né sul piano teorico né su quello pratico. Noi siamo partiti da considerazioni politiche sulla fase e ci siamo misurati con una proposta che avevamo già annunciato dopo la campagna “questa volta no” in occasione delle elezioni dell'aprile scorso. Siamo partiti dunque da un dato di fatto: la risposta astensionista ai professionisti acchiappavoti che ha messo fuori gioco l'arcobaleno e dimostrato la debolezza del veltronismo. Facendo questo non abbiamo affatto pensato che si aprisse la possibilità abbattere il capitalismo, tutt’altro. Però non vogliamo solamente goderci lo spettacolo di una sinistra governista diventata obtorto collo extraparlamentare. Vogliamo misurarci con una ipotesi di sviluppo politico che ha bisogno di verifiche e su questo apriamo la discussione a Chianciano.
Non è il momento di riproporre altre liste elettoriali né di recitare il bignami della rivoluzione per darci ragione da soli.
Pubblicheremo in questo blog tutte le lettere in arrivo. La discussione prosegue a Chianciano.
Michele Basso. Pia desideria, 7 settembre 2008.
In megachip del 4 settembre è apparso un documento di “Questa volta no”, un gruppo che al tempo delle elezioni aveva lanciato una proposta astensionista. Ora scrivono: “La fine della sinistra ha... una radice profonda... La sinistra è stata caratterizzata, nei due secoli della sua esistenza, dal binomio “sviluppo ed emancipazione”: è stata cioè la parte politica, sociale e culturale che ha lottato per l'emancipazione dei ceti subalterni promuovendo lo sviluppo economico e tecnologico. Questa congiunzione è stata possibile perché, fino a tempi recenti, sviluppo ed emancipazione erano compatibili. Ma la situazione è completamente cambiata negli ultimi decenni. La fase storica ... chiamata “globalizzazione” o neoliberismo” rappresenta, fra le altre cose, il momento in cui sviluppo ed emancipazione si separano e si contrappongono. Mentre fino a pochi decenni or sono lo sviluppo economico e tecnologico poteva davvero portare al miglioramento delle condizioni di vita dei ceti subalterni, oggi sviluppo significa attacco ai redditi e ai diritti conquistati dai ceti subalterni nella fase precedente, significa attacco ai territori per le grandi opere necessarie allo sviluppo stesso, significa degrado ambientale e sociale. In questa situazione la posizione che definisce la sinistra, quella cioè di volere l'emancipazione dei ceti subalterni attraverso lo sviluppo, non è più possibile...”
Questa critica sarebbe corretta se si riferisse solo alla sinistra riformista, che effettivamente non ha più spazio se non come forza d’appoggio a uno dei settori della borghesia. L’incompatibilità tra lo sviluppo e il miglioramento della vita delle vaste masse è reale, ma solo nell’ambito del capitalismo. La crescita delle forze produttive è ormai incompatibile con la società borghese, e assume un carattere distruttivo, antisociale. Ma proprio l’impossibilità di riformare il capitalismo senescente rende attuale e storicamente necessaria la sua eliminazione e la socializzazione dei mezzi di produzione, possibili solo se risorge una sinistra rivoluzionaria.
“Si tratta invece di capire come sia possibile far vivere gli ideali di emancipazione, giustizia, solidarietà (o, se si preferisce, i classici ideali di libertà, uguaglianza fraternità) in una situazione in cui non è più possibile la lotta politica come l’abbiamo conosciuta finora.”
Che senso ha la riesumazione delle parole d’ordine della rivoluzione francese? Non si può criticare il riformismo attingendo ad esperienze ancora precedenti, rivoluzionarie certamente, ma borghesi, non più proponibili in un mondo in cui la borghesia è marcia. Oppure si dà a queste parole un significato metastorico, valido per tutte le epoche e tutti sistemi economico sociali, avulso da ogni preciso riferimento storico? L’esperienza ha dimostrato che la libertà della borghesia si trasforma ben presto in libertà di sfruttare a piacimento i lavoratori. Quanto all’emancipazione, oggi ha un senso soltanto se significa emancipazione dei lavoratori, superamento della condizione salariale.
“Bisogna scegliersi nemici”... Fra questi vi sono, oggi in Italia, i componenti della Casta... Lo sviluppo sociale è comandato, in ogni ambito, dall’economia e dalle sue esigenze di profitto... A cosa si riduce allora la politica? A pura e semplice amministrazione dell’esistente, a competizione fra cordate di amministratori, il cui unico ruolo è quello... di gestire il consenso sociale”.
Si possono e si devono utilizzare le inchieste di giornalisti e di studiosi borghesi che mettono in risalto la corruzione, ma bisogna anche saper prendere le distanze dalle loro interpretazioni dei fenomeni sociali. Quando si parla di casta si usa un’espressione brillante, che accomuna più settori della società, ma non si tratta di un concetto scientifico su cui si possa basare un’analisi realistica. Se vogliamo identificare la casta con i soli politicanti, dobbiamo ricordare che il vero nemico principale dei lavoratori è la borghesia, proprietaria di fabbriche, di terre, di banche, e che sarebbe assurdo prendersela con i servi, tralasciando i padroni. Il ceto politico, sempre più parassitario, può essere eliminato in poco tempo, se è troppo costoso o ingombrante per la borghesia. Craxi sembrava onnipotente, Mastella si credeva in una botte di ferro. Quando il personale politico diventa impopolare, la borghesia lo utilizza come capro espiatorio. Perciò, bisogna certamente scegliersi i nemici, non farli scegliere dai giornalisti o scrittori alla moda, che esprimono, coscientemente o no, la visione del mondo e gli interessi di fondo della borghesia.
“La lotta contro la Casta non è di per sé lotta contro i fondamenti dell’attuale sistema socioeconomico, non è di per sé lotta rivoluzionaria. Ma in ogni situazione di lotta contro il potere dominante, si può lottare solo contro quelle articolazioni del potere che il potere stesso ci contrappone”. Magnifico! Si comincia dicendo che bisogna scegliersi il nemico, poi si lascia scegliere al capitale chi dobbiamo combattere, quando, con quali modalità. Se un esercito fa una manovra diversiva in un punto secondario per distrarci dal punto in cui avverrà l’attacco principale, dobbiamo proprio cascarci? E’ forse un caso che il 1992 sia l’anno dell’inizio di mani pulite, ma anche dell’abolizione della scala mobile? Che soddisfazione vedere alti esponenti della “casta” di allora cadere! Il 17 febbraio veniva arrestato Mario Chiesa, il primo grande indagato, ma il 31 luglio 1992 governo e parti sociali firmavano un «Accordo sulla politica dei redditi, la lotta all'inflazione e il costo del lavoro», con cui veniva abolita la scala mobile. La borghesia ci agita davanti agli occhi il drappo rosso per non farci vedere la spada che ci colpirà. Quindi attenzione, perché la campagna contro la Casta ci darà in pasto qualche politico rompiscatole, ma cercherà di farci dimenticare la continua perdita di diritti e di potere d’acquisto che ci sta riducendo al limite, sul piano politico, sociale ed economico, e ciò avverrà finché la borghesia riuscirà a scegliere per noi quali nemici dobbiamo combattere, e ci saranno dei militanti “innovatori”, che hanno accantonato “l’inutile marxismo”, e che si precipiteranno nella trappola, trascinandosi dietro gli altri. Governo e sindacati stanno discutendo la controriforma dei contratti collettivi nazionali di lavoro, è questo un problema che dobbiamo tenere sempre presente.
Il documento pone poi il problema della decrescita: “Con tale nozione si intende il rifiuto dello sviluppo inteso come aumento del Prodotto Interno Lordo, e la proposta di una sua progressiva diminuzione. Ciò coincide... con la proposta della progressiva diminuzione dell'offerta di beni sotto forma di merci (la merce è il bene prodotto per il mercato, in vista di un profitto monetario e dotato quindi di un prezzo), e dell'espansione dell'offerta di beni non in forma di merci. La proposta della decrescita non implica necessariamente la diminuzione dell'offerta di beni, ma nelle condizioni attuali è possibile e sensata solo assieme ad una profonda riforma intellettuale e morale che porti a scelte di vita contrassegnate da sobrietà e rifiuto del consumismo.” Più facile a dirsi che a farsi. In una società appena uscita dal feudalesimo, composta in gran parte da contadini e artigiani, sarebbe possibile uno scambio senza denaro, un baratto, ma in una società in cui chi produce è abituato a fare non prodotti finiti, ma componenti del prodotto, come è possibile? Chi produce paia di scarpe può cambiarle con prodotti agricoli, ma chi produce tomaie o tacchi, o componenti elettroniche? La divisione crescente del lavoro rende impossibile ogni uscita dal mercato che non sia a livello dell’intera società. Esperienze di isole non mercantili sono fallite in massa nell’Ottocento, anche se guidate da innovatori geniali come Owen. Non si vede come possano riuscire ora, quando la potenza del mercato è enormemente accresciuta.
La produzione di beni in forma non mercantile è possibile dunque in due modi diversi.
Il primo è l’autoconsumo: piccoli produttori producono esclusivamente o prevalentemente per il proprio consumo, e si scambiano le eccedenze. In seguito, con lo sviluppo mercantile, una parte crescente passa attraverso il mercato. L’altro modo di evitare la forma mercantile è attraverso la socializzazione, che richiede però la grande produzione e un livello di produttività assai alto, quindi un progresso, ma con scopi e modalità assai diverse da quelle capitalistiche. Questo però richiede la conquista del potere politico da parte dei lavoratori, l’espropriazione della borghesia, cioè una rivoluzione politica e sociale, e non può essere ottenuto con una riforma intellettuale e morale. Il cosiddetto consumismo, poi, riguarda solo una piccola fascia delle popolazione mondiale, perché la restante parte è all’indigenza e alla fame, e deve aumentare e non diminuire i propri consumi.
Il proletariato al potere ridurrà certamente la produzione dell’acciaio, che serve in buona parte a produrre armi e opere pubbliche inutili, quella di prodotti superflui o dannosi, ma dovrà incrementare la produzione alimentare e di tutta una serie di prodotti, dai mobili ai libri, dalle case popolari all’informatica che dovrà essere diffusa a tutte le fasce ora escluse. Il capitalismo non è l’economia dei consumi – se non per pochi - ma è l’economia dello spreco, non solo degli oggetti prodotti, ma anche e soprattutto del lavoro umano.
“Un secondo punto si collega a un altro dato profondo della realtà contemporanea, cioè il progetto di dominio globale del pianeta, e in particolare delle zone rilevanti per il controllo delle risorse, progetto che gli USA hanno iniziato a mettere in atto a partire dagli ultimi anni dell'amministrazione Clinton, e in maniera evidente a tutti dopo l'11 settembre”.
Spiace dover ripetere le stesse cose, ma gli Stati Uniti già alla fine della prima guerra mondiale con la loro finanza e la loro gigantesca produzione industriale facevano il bello e il cattivo tempo nell’economia mondiale e i loro commerci sostituivano quelli dei paesi europei nelle semicolonie e persino nelle colonie. Nel periodo di maggiore forza economica e politica, nei primi vent’anni dopo la guerra, spesso non era necessario far guerra a un paese ribelle, bastava un colpo di stato. E’ proprio la perdita di potere e di credibilità degli USA che rende particolarmente evidenti e intollerabili i loro progetti di dominio. Kennedy era imperialista quanto Bush, ma quando venne a Napoli, la folla ruppe i cordoni di sicurezza non per contestarlo, ma per fargli festa. Il dominio USA era talmente consolidato in Europa da trasformarsi in consenso spontaneo. Oggi il governo americano è così odiato, perché la sua debolezza politica lo costringe a usare spesso la forza.
La repressione in America ha toccato punte altissime, ma non si dimentichi che per buona parte del novecento molti neri furono bruciati vivi o impiccati, e negli anni venti molti comunisti furono gettati nel catrame bollente. La repressione la si nota ora perché non tocca più soltanto afroamericani, ispanici, arabi, lavoratori salariati in lotta, ma anche rispettabili appartenenti alla classe media.
Ma la natura smaccatamente riformistica del documento la si vede soprattutto dall’apologia della costituzione repubblicana, giungendo a dire che “l’attuazione della carta costituzionale configurerebbe una vera e propria rivoluzione economica, sociale e politica”. Si aggiunge che l’art. 43, che prevede l’espropriazione, salvo indennizzo, di imprese “che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, secondo il documento sarebbe marxista. Con questo criterio, sarebbero d’ispirazione marxista gli articoli 834 (Espropriazione per pubblico interesse) e 838 (Espropriazione dei beni che interessano la produzione nazionale o di prevalente interesse pubblico) del Codice civile del 1942, tuttora vigente, che porta le firme di Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della nazione re d’Italia e d’Albania e Imperatore d’Etiopia, di Benito Mussolini e del guardasigilli Grandi. E sarebbero marxisti Giolitti, che nazionalizzò le assicurazioni e Bismarck, che fece altrettanto con le ferrovie.
Quindi la difesa dei diritti dei lavoratori, la demercificazione dell’economia, la sua definaziarizzazione sarebbero possibili con l’attuazione della costituzione, per cui propongono un movimento politico che s’ispiri ai suoi principi. Ma la costituzione all’art. 42 riconosce e garantisce la proprietà privata, e inevitabilmente proprietà privata vuol dire accumulazione di capitale, mantenimento della condizione salariale, profitto, rendita, interesse, cioè tutte le categorie del capitalismo. E’ questa la vostra rivoluzione? Volete che una società che abbia tutte le categorie del capitalismo, ma senza averne i difetti, e che vi permetta addirittura di demercificare l’economia.
La costituzione non nasce dal nulla, o dall’idillico incontro di liberali, cattolici e marxisti, ma è l’idealizzazione della società borghese. Assurdo distaccarla da questa realtà e pensare che sia una scorciatoia legale verso una società nuova. Certo, come una qualsiasi altra legge può essere utilizzata per difendersi. Chi viene arrestato perché manifesta contro gli interventi militari italiani può citare l’art. 11. Ma la mitizzazione della costituzione, è il marchio di fabbrica di tutti i riformismi.
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